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Pagine di storia
20 Marzo 2024 - 15:31
IN FOTO Da un ritaglio del «Risveglio popolare» del 1957, don Giacomo nel giorno dell’ordinazione a Buenos Aires con i padrini Giuseppe Bon (a sinistra) e Giovanni Bertoglio.
«A smija a don Bòsch», diceva mia madre, guardando con gentile rispetto il giovane seminarista, sull’aia della cascina di Pinòt e Ninìn Salto.
Il ricordo più lontano che ho conservato io di don Giacomo Salto, Giacolìn, è quello di un ragazzo bellissimo, alto e snello nella lunga tonaca nera. Si era ai tempi della seconda guerra mondiale, io avevo otto anni, e Giacolìn ne aveva nove di più. Era un mio cugino in terzo grado per parte di padre.
IN FOTO Casa del Montbiot. Sul ballatoio, da sinistra: Marilena Albertan Min, figlia di Ida, Marisa Magnino e l’amica Lucia Panier Suffat; seduta, Caterina Brunero Graneia
Pinòt e Ninìn, i genitori.
Pinòt (Giuseppe Salto) e Ninìn (Caterina Brunero Granfia) erano i suoi genitori. Ai tempi della loro gioventù, nelle nostre campagne le ragazze non potevano parlare con i ragazzi, e nemmeno uscire da sole. Dopo il lavoro nei campi, nelle fabbriche o nelle famiglie, consumavano una cena frugale e poi si ritiravano nelle stalle con i parenti a spannocchiare il granoturco o a fare dei lavori di maglia con i ferri o dei pizzi con l’uncinetto.
Dal soffitto pendeva una lampada a petrolio o a acetilene – come ricordo nettamente lo strano odore dell’acetilene! D’inverno il calore dei bovini riscaldava l’ambiente umido e semibuio, i porcellini d’India si muovevano guardinghi sulla paglia tra gli zoccoli delle capre e delle mucche.
Quando, a quei tempi, un giovane desiderava sposare una certa ragazza e pensava di avere i requisiti necessari per chiederla in moglie – buona salute, una cascina, dei campi e delle mucche o un lavoro in fabbrica – alla sera si recava sull’aia della cascina della sua bella, e domandava al padre il permesso di entrare. Non sempre il giovane era quello che la ragazza accarezzava nei sogni.
I pretendenti che il padre proponeva a Ninìn a lei non piacevano affatto. Quando entrava nella stalla uno di loro, lei non sollevava il capo dal suo lavoro e rispondeva con monosillabi.
«Ta starè da mariar s’it fè sempre paré», le diceva suo padre.
«Pa’, mi veuj nin mariami».
La sera che Pinòt, – dopo tutte quelle occhiate da batticuore durante la messa – si presentò sull’aia, il padre di Ninìn lo guardò con un’aria poco benevola.
«Giaco, a’m fèj parlar con Ninìn?»
«Ninìn l’è andata a cogiasi, perché l’ha la fevra».
E un’altra sera: «A l’è andata da sua magna ch’a l’ha catà en masnà».
E quando chiese di salutarla prima di partire soldato si sentì rispondere: «Lass’la star tranquila».
Pinòt partì e Ninìn continuò a rifiutare tutti pretendenti. Andava di nascosto dalla madre e dalle sorelle di Pinòt per avere notizie del suo innamorato.
Dopo tre anni di trincee e di combattimenti, Pinòt riportò una ferita all’addome e fu rimandato a casa con un premio, tutto ciò che l’Italia di allora poteva offrire ai suoi reduci: una divisa e un paio di scarpe nuove.
Nella foto: don Giacomo con la madre Caterina.
Ritornò sull’aia della sua bella, dalla stalla lei riconobbe il ticchettio degli zoccoli. Questa volta il padre lasciò entrare Pinòt. Lui aveva 33 anni e Ninìn 23. Convolarono a nozze quando correva l’anno 1919.
Con 29 lire comprarono una bicocca al Montbiot di Castellamonte, sperduta in mezzo ai boschi e sulla cima di una collina. Più che una casa era un capanno per gli attrezzi del lavoro dei campi, che riattarono con l’aiuto di un muratore ricavandone due stanze al primo piano e la cucina e un’altra stanza al piano terreno. Disboscarono e terrazzarono il terreno per ottenere una vigna e dei campi. Piantarono meli, peri, ciliegi e albicocchi. Nacquero sette figli. Giacolìn, il terzo, nacque il 29 gennaio del 1925 e mia cugina Ida, l’ultima, che mi racconta questa storia con tanto garbo, nel 1934.
Ninìn faceva la lavandaia presso famiglie benestanti in paese, i panni di casa sua li lavava sulle pietre del ruscello dei Prà d’la Val o nel Malesina, a Preparetto. Pinòt lavorò per qualche anno in una fabbrica di pignatte, poi divenne fuochista alla fornace Cola, a Filia bassa. D’inverno raccoglieva nei boschi della legna che segava e vendeva.
Giacolìn.
Giacolìn era un bambino riflessivo e studioso, in contrasto con il fratello Ernesto che aveva due anni di più ed era molto vivace. Un giorno che i fratelli presero a litigare sull’aia, la madre uscì dalla cucina per appioppare uno schiaffo a Ernesto – a incominciare era sempre lui – ma il ragazzino scappò nella vigna a gambe levate. Ninìn si ritrovò con Giacolìn stupito e umiliato, che si teneva una mano sopra una guancia.
«Folaton, – disse Ninìn, che ci restò malissimo e si arrabbiò ancora di più – perché ti ta scape nin me c’ha fa tò fradel?»
Un giorno Giacolìn sentì nominare Don Bosco e rimase incantato nell’udire la storia del prete di Castelnuovo d’Asti.
«Pa’, dop la quinta mi veuj andar en Seminari».
«Ti it vè nin en Seminari», gli rispose Pinòt, che pure era credente e la domenica andava a messa. C’erano troppo ragazzi in paese e nei dintorni che, finita la quinta, entravano in Seminario e poi, al termine degli studi, gettavano la tonaca alle ortiche. Questo per Pinòt e per la sua famiglia, timorata di Dio e rispettosa, sarebbe stata un’umiliazione.
«Perché?», domando Giacolìn.
«Perché mi jeu pàura che doman it fasi paré me tant d’ij auti, ch’as gavo la vesta e a fan d’ij auti travaj».
Persino l’arciprete di Castellamonte, don Mario Coda, era alquanto dubbioso.
Il ragazzo, convinto e testardo, vinse la sua battaglia. A undici anni, in un autunno nebbioso, accompagnato dalla madre e dalla sorella Irma, di nove anni, si incamminò a piedi in direzione dell’istituto Cardinale Cagliero a Ivrea. Una madre e due bambini con gli zoccoli e un enorme fardello – materasso e corredo – affrontarono la statale, dove passavano le Balilla dei benestanti, i tamagnon, i camion, i carretti trainati dalle mucche o dai cavalli, e le biciclette.
Nello stesso anno entrarono in Seminario anche due amici del ragazzo: il figlio del calzolaio di San Rocco, Vittorio Bernardetto, che sarebbe poi diventato vescovo, e Sandro Costa, che diventò missionario.
Castellamonte, si diceva in quegli anni, sarebbe diventato un paìs ëd prèive.
All’inizio della seconda guerra mondiale, il Seminario fu trasferito a Montalenghe. Fu di lì che i superiori telefonarono all’arciprete di Castellamonte per dirgli che il ragazzo era magrissimo e pallido, molto debole. Sarebbe stato opportuno che ritornasse a casa per una vacanza e per tirarsi un po’ su. E Giacolìn tornò al Montbiot con la sua tonaca nera, con le guance incavate. Durante quel mese, in cui stava a casa per rifocillarsi, andava sovente alla fornace a trovare suo padre. Lì abitava un altro fornasé, un veneto con tre bambini.
Giacolìn portava i figli del fornasé nella cascina dei suoi genitori, insieme a qualche altro ragazzo della fornace. Sulla Carriera dalla provinciale si vedeva la sua lunga tonaca nera sopra il declivio erboso, circondata da quattro o cinque masnà.
Alla cascina i bambini sedevano sotto la tòpia d’uva fròla, Giacolìn insegnava a fare i compiti, la madre preparava per tutti la merenda col pane e la marmellata.
IN FOTO La famiglia di Giacolìn nel 1946. In prima fila: la madre Caterina Brunero Graneia (Ninìn), la sorella Ida, il padre Giuseppe Salto (Pinòt). Dietro, da sinistra, le sorelle Franca e Maria, il fratello Ernesto, lo stesso don Giacomo (nel riquadro, aggiunto), le altre sorelle Irma ed Elena.
La grazia del bottone.
La vestizione avvenne a Castelnuovo Don Bosco, e fu una bella festa per tutti i chierici, con parenti e amici, cui seguì una passeggiata lungo le vie del paese, con le còte nere svolazzanti, fresche di appretto, i genitori con gli abiti della domenica, le ragazze grandi con i calzini alle caviglie e le bambine con grosse gale in testa.
La tonaca dei chierici aveva sul davanti una lunga fila di bottoncini. Una credenza popolare diceva che chi, nel giorno della vestizione, avesse allacciato uno di quei bottoni avrebbe potuto chiedere e ottenere una grazia. Giacolìn concesse alla madre di abbottonarne tre o quattro. Lo fecero anche suo padre, le sorelle e il fratello.
Nonostante l’allegria della festa, Pinòt era ancora scettico e dubbioso, e faceva il burbero. Fu nel centro di Castelnuovo che domandò all’improvviso al figlio:
«Ma ti, it l’è ël parèva?»
«No pa’, mi ël parèva l’o nin, ij peuss star sensa».
«Adess ch’it l’è sta bela vesta neuva…», disse Pinòt pensieroso.
Aveva tutta un’altra faccia di prima, era un padre orgoglioso, mentre camminava per le vie di Castelnuovo con il figlio in tonaca nera, con Ninìn, con Ernesto e con le cinque figlie con gli abiti della festa. Pinòt si fermò davanti a una merceria e domandò a Giacolìn:
«Ma ti, it j’è ij caussèt da cambiati?»
«Sì, n’o doj paira».
«E ij fassoleit? Ij previ a jan ëd bej fassoleit gross e bianc».
Pinòt entrò nella merceria e comprò un ombrello, sei paia di calze e dodici fazzoletti grossi e bianchi. E Ninìn disse alle figlie, in fondo lei ci credeva: «Costa a l’è la grassia dël boton».
IN FOTO Ninìn, madre di don Giacomo, sotto la tòpia d’uva fròla, nel cortile della casa del Montbiot.
In America Latina.
Qualche tempo dopo, Giacolìn fu mandato a Roma, come chierico, presso i Salesiani di san Giovanni Bosco. Nel 1947 venne inviato dai suoi superiori a Salta, piccola città ai piedi della Cordigliera, nel nord dell’Argentina; poi a Santiago del Cile, in Uruguay. Poi di nuovo in Argentina, nel sud della Terra del Fuoco dove, non possedendo un’automobile – non aveva nemmeno la patente – si spostava a cavallo tra le montagne. Soccorreva e confessava i malati e intratteneva i bambini, gli insegnava a scrivere e a leggere e gli portava del cibo.
Giacolìn diventò don Santiago. A Buenos Aires fu ordinato sacerdote nel 1957; qui svolse l’attività apostolica nei quartieri della Boca, tra le favelas della zona del porto, in luoghi dove le polizia non si avventurava nemmeno di giorno. Spaventosa miseria, case poverissime, estrema povertà e ignoranza.
Alla Boca, ma anche nei barrios di Agrelo e di Almagro, riuscì a catturare il cuore sovente indurito e selvaggio dei giovanissimi immigrati italiani, i tanitos, che si riunivano in bande prepotenti e agguerrite.
Una notte, nel profondo silenzio, davanti a una capanna isolata, don Santiago udì un bambino piangere disperato.
«Perché piangi, chico?»
«Mio padre sta morendo».
«Chiedi a tua madre se posso entrare».
Trovò un uomo disteso su un giaciglio di foglie, pallido e tremante, imbrattato di sangue.
«È caduto da un’impalcatura – spiegò la donna – e il padrone ci ha impedito di portarlo in ospedale, perché lavora in nero».
Don Santiago andò a cercare un telefono, chiamò un’ambulanza e l’indomani denunciò l’imprenditore alle autorità.
A Buenos Aires gli venne assegnato l’insegnamento del latino nel Seminario minore e nel Baciliarato Umanista Moderno. Erano gli anni oscuri del peronismo, per cui si dovette rifugiare nella clandestinità, nonostante che tutto il suo interesse e il suo amore fossero rivolti a quella massa di diseredati che il regime appoggiava. Poi tornò a Salta, dove divenne il segretario dell’arcivescovo, ma il suo pensiero era sempre rivolto ai poveri e agli emarginati. Qui fondò il gruppo scout Movimento Cattolico, l’USCA, che raccolse centinaia di giovani e che esiste tuttora. Fondò anche la parrocchia di Santa Rosa da Lima, come scrisse monsignor Oscar Moya, Vicario generale dell’Arcidiocesi di Salta in occasione della morte di padre Salto, ricordando che don Santiago aveva accolto la richiesta di don Bosco – «dammi le anime e lascia tutto il resto» – e l’aveva vissuta con grande zelo.
Una vita per i poveri.
Dopo dieci anni a Salta, ricevette l’offerta di un nuovo incarico prestigioso – in cosa consistesse la sorella non sa precisare – ma don Santiago rinunciò per tornare alla Boca, tra gli indigenti, immigrati da ogni parte del mondo.
Alla Boca ricominciò a raccogliere nelle strade bambini che cercavano nelle discariche qualcosa da ripulire e tentare di vendere, ricominciò a portarli alla Missione il sabato e la domenica, a nutrirli, ad educarli.
Di suo, don Santiago non possedette mai niente, si nutriva dello stesso cibo che offriva ai poveri e si vestiva con gli abiti donati dalle associazioni caritatevoli.
L’unico lusso che si concedette fu qualche viaggio a Castellamonte per incontrare la sua famiglia. Alla Boca iniziò la costruzione di una chiesa dedicata alla Sacra famiglia, ma i pesos erano pochi, non riuscì a vederla finita. Fu terminata solo dopo la sua morte.
Don Carlos Belvedere, della Comunidad del Sagrato Corazon di San Justo, in una lettera di condoglianze alla famiglia scrive che don Giacomo negli ultimi anni aveva imparato a sorridere di se stesso e di molti episodi della vita trascorsa. Lo faceva ogni volta che scopriva come il suo pensiero fosse cambiato e come lui si fosse via via adattato alle esigenze dei tempi nuovi.
Don Giacomo Salto morì alla Boca nel giugno del 1999, all’età di 74 anni. Le sue spoglie terrene rimasero in Argentina, ma la famiglia ottenne dalla Curia il permesso di lasciare una sua fotografia presso la tomba dei sacerdoti di Castellamonte.
Ho davanti agli occhi alcune tra le moltissime lettere che Giacomo scrisse alla sua famiglia, ricordando ogni volta con tenera attenzione tutti i suoi componenti: il fratello, le sorelle, la cognata, i cognati, i nipoti e i pronipoti, tutti coi loro nomi e coi compleanni. Al tempo di quelle lettere, la madre e il padre di Giacolìn non vivevano più.
Tutti gli anni alla fine di maggio, un prelato – a volte il Vescovo stesso di Ivrea – celebra una messa al Montbiot, alla Cros d’ël Ciàp, di sera, tra sciami di lucciole.
Il pianoro, illuminato da forti lampade, diventa una macchia di luce nel profondo buio della collina. E alla messa, sotto gli improvvisati gazebo, segue un rinfresco con vino e torte preparati dalle massaie del posto.
Don Giacomo amava quel luogo isolato e sereno e, nella sua semplicità, di grande bellezza.
Il suo cuore fu sempre diviso tra la famiglia, il Montbiot e la Cros d’ël Ciàp, e la «sua gente» del Sudamerica.
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