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La festa dei moccoletti, l’antico  carnevale romano

La breccia di Porta Pia gli diede il colpo di grazia e re Vittorio Emanuele II lo cancellò del tutto nel 1874

La festa dei moccoletti

Le tracce del Carnevale romano come evento di una certa risonanza partono dal XII-XIII secolo.

Ma prima di spostarsi in via del Corso, dal IV secolo i riti del Carnevale si tenevano sotto il Monte dei Cocci a Testaccio, in piazza Farnese o in piazza Navona, dove venivano organizzate le tauromachie, la giostra del saracino, in cui si infilzava il fantoccio con le fattezze di un moro, e il torneo dell’anello, con il fante a cavallo che infilava un cerchio con la lancia, facendo rovesciare una secchia piena d’acqua sul pubblico.

Nel 1464 fu eletto papa un veneziano, Paolo II, che spostò la residenza a Palazzo Venezia, appena costruito.

 

Il pontefice voleva il Carnevale sotto la sua finestra, quindi ordinò che si tenesse in quella lunga strada che allora si chiamava via Lata.

Come lui, tutta la nobiltà romana si affacciava dal balcone a rimirare gli eventi, lanciando denaro al popolo in festa. Il  rettifilo di un chilometro e mezzo sembrava fatto apposta per le competizioni, regolamentate da bolle papali. Le cronache raccontano che “si facevano altri sei palii [...] uno per gli ebrei che correvano il lunedì  prima della domenica. Uno pei fanciulli cristiani pel martedì. L’altro pei giovani cristiani nel mercoledì.

Il quarto pei sessagenari nel venerdì. Il quinto per gli asini nel lunedì. Il sesto per le bufale nel martedì”. Da questa passione per la córza, in romanesco, arrivò il nuovo nome: “via del Corso”. Tutti i romani sfilavano, spesso in maschera, ma si poteva travisare il viso solo fino al tramonto.

Chi assisteva lanciava all’indirizzo dei figuranti confetti o “sbruffi”, pezzetti di carta colorata, antesignani dei coriandoli, o proiettili di gesso, lanciati dai balconi.

Si mascheravano anche preti e suore. I giovanotti si travestivano da donne, e con il seno scoperto si lasciavano andare a insolenze e volgarità. Tra i travestimenti preferiti c’erano Rugantino, Cassadrino e Meo Patacca. Le  famiglie patrizie ci tenevano a ornare i balconi di drappi e gonfaloni. Ma anche i papi caratterizzavano il Carnevale in base ai loro gusti, per esempio con carri trionfali allestiti dagli stessi artisti che arricchivano il Vaticano di affreschi.

Qualche papa esagerò: Alessandro VI Borgia, per esempio, in aggiunta agli abituali palii, nel 1501 istituì la corsa delle prostitute. Nel 1667 Clemente IX mise fine agli spettacoli salaci, ma a quelli subentrarono pene corporali e pubbliche esecuzioni. Le guardie erano lì a ricordare che con il papa re non si scherzava.

L’esecuzione capitale apriva il Carnevale, come scriveva Antoine-Jean-Baptiste Thomas in Un anno e Roma e nei suoi dintorni (1823): “La mattina del primo giorno viene allestito un patibolo nello stesso posto dove hanno luogo i divertimenti”.

Se il boia apriva le danze con il supplizio del cavalletto, con gli spettacoli pirotecnici,  che artisti come Bernini, Vespignani e Valadier contribuirono a rendere grandiosi,  iniziava la Quaresima. Ai romani piacevano le gare cruente, come la ruzzica de li porci che si teneva sulla collina di Testaccio, facendo rotolare giù carretti con maiali vivi. Non c’era riguardo nemmeno per gli umani: le fonti menzionano corse di storpi, nani e zoppi.

L’evento più atteso era la corsa dei Berberi, cavalli lanciati senza fantino da piazza del Popolo (la cosiddetta mossa, come al Palio di Siena, verso piazza Venezia, più piccola di oggi, dove i barbareschi li fermavano mentre il Papa si godeva la “ripresa” delle bestie.

Ai   romani piacevano  le gare cruente come la ruzzica de li porci che si teneva sulla collina di Testaccio, facendo rotolare giù carretti con maiali vivi. Non c’era riguardo nemmeno per gli umani: le fonti menzionano corse di storpi, nani e zoppi. L’evento più atteso era la corsa dei Berberi, cavalli lanciati senza fantino da piazza del Popolo, la cosiddetta mossa, come al Palio di Siena, verso piazza Venezia, più piccola di oggi, dove i barbareschi li fermavano mentre il papa si godeva la “ripresa” delle bestie, la corsa dei moccoletti era il momento conclusivo del Carnovàle: vi si prendeva parte la sera del Martedì grasso reggendo lumini e candele accese: il gioco consisteva nel cercare di spegnere il moccolo altrui tenendo acceso il proprio, al grido di “Mor’ammazzato chi nun porta er mòccolo!”.

Qualcuno saliva sui trampoli pur di difendere la fiammella. Si correva in una esaltazione quasi selvaggia fino a che le campane delle chiese non chiudevano i riti carnascialeschi con l’Ave Maria. 

Il carnevale romano voluto dai papi, amato dal popolo, si apriva con le gare di cavalli berberi e si chiudeva con la festa dei moccoletti. La manifestazione aveva la sua origine nella notte dei tempi, nei Saturnali della Roma antica, ma dal ’400 divenne un appuntamento fisso con competizioni e giochi attentamente codificati dalla curia romana: durava dagli 8 ai 10 giorni e culminava nel Martedì grasso che apriva la Quaresima.

L’evento divenne così famoso che durante il Rinascimento rivaleggiava in fama con il Carnevale di Venezia. La festa dei moccoletti era l’appuntamento conclusivo di una settimana vissuta senza freni, come d’uso nella laguna. In sostanza, in quei giorni c’era una specie di dispensa papale per folleggiare: le dure reprimende dei prelati e la mordacchia stretta delle guardie papaline lasciavano lo spazio ai bagordi.

Goethe, che tra il 1786 e il 1788 era nella Penisola per il suo Grand Tour, scriveva così nel suo Viaggio In Italia, 1813: “Il Carnevale a Roma non è una festa data al popolo, ma una festa che il popolo dà a se stesso. Il governo non fa preparativi né spese. Non illuminazioni, non fuochi artificiali, non processioni splendide, ma un semplice segnale che autorizza ciascuno a essere pazzo e stravagante quanto gli pare e piace. Salvo le bastonate e le coltellate, tutto è permesso”.

Con queste premesse, ci scappavano anche i morti: il Carnevale romano, infatti, non sopravvisse all’Italia unita.

La breccia di Porta Pia gli diede il colpo di grazia e re Vittorio Emanuele II lo cancellò del tutto nel 1874, in seguito a un brutto incidente verificatosi durante la corsa dei Berberi, una delle gare più attese della settimana.

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