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Punto Rosso

Il primo, e non sarà l’ultimo. In morte di Vespino

Tocca ai tuoi compagni ora far uscire le voci del carcere perché arrivino fino a noi...

Carcere di ivrea, Vespino, La Fenice, ivrea

Vespino

Il primo dell’anno, non sarà l’ultimo, ma la morte nel carcere di Ivrea di Andrea-Vespino, ha colpito molte coscienze e sensibilità. Non leggete la morbosa e facile cronaca che alla morte di Vespino dedica due righe e invece riempie mezza pagina sui dettagli del reato da lui commesso (naturalmente senza alcuna analisi), leggete piuttosto cosa scriveva Vespino su La Fenice (lafenice.varieventuali.it/), il giornale online del carcere di Ivrea edito da Rosse Torri.

Se non se ne ha già contezza, si scopre che recluso vive una doppia prigione: quella per scontare la sua pena e quella che non gli dà la possibilità di cercare altrove aria per respirare. Mancava l’aria a Vespino, da tanti lunghi giorni. Non l’aria della libertà, sapeva che era lì che doveva cercarla, ma proprio l’aria per respirare. E il suo corpo, prima ancora che le sue parole, lo urlavano forte che gli mancava l’ossigeno, la pelle diventava grigia, le labbra viola.

Ma una sorta di sordità ha colpito fra le mura della casa circondariale di Ivrea chi doveva sentire. Nessuno si è accorto che un uomo si stava consumando. I suoi compagni della redazione La Fenice si erano accorti che non stava bene e oggi sono loro i soli a farsi una colpa per non aver preteso di più, più cura per il loro compagno.È vero, si muore ogni giorno, e accade anche nel mondo fuori dalle mura di morire per una diagnosi sbagliata, per la sottovalutazione dei sintomi, per fretta o superficialità. Ma dentro non hai scampo, non puoi sentire un “secondo parere”. Si ha un solo parere medico, prendere o lasciare.

È vero, si muore anche se ben curati, se la diagnosi e le cure sono perfette, ma il racconto della morte di Vespino, fa pensare che nel suo caso abbia inciso proprio la sua condizione di recluso, ultimo insieme agli ultimi.

Ma Vespino non aveva rinunciato a cercare di viverla diversamente questa sua reclusione: con la scrittura, con l’impegno della redazione dove era lui il trascinatore, sempre pronto ad aiutare gli altri, provava a cercare e condividere rabbie, riflessioni, pensieri altri e alti, provava a migliorarsi, come prova ognuno di noi, provava a far conoscere all’esterno la realtà del carcere, di come si potesse trovare umanità, amore, dignità in chi certo ha sbagliato, anche molto gravemente e per questo paga. Ma la reclusione dovrebbe essere l’unica pena.

Non il maltrattamento, l’umiliazione, l’indifferenza, tutti ingredienti che certo non tendono “alla rieducazione del condannato” come ci indica l’articolo 27 della Costituzione che prima ancora ci dice che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.  Continuando ad ignorare la Costituzione, le nostre carceri saranno sempre più piene, di recidivi.

Non è sufficiente fare consigli comunali aperti e altre belle iniziative per collegare la città al carcere, occorre fare passi in più, rivedere il sistema, occorre che chi ha il ruolo di vigilanza civile, vigili. Le torture, i maltrattamenti, le cattive condizioni delle celle, la mancanza di cura della salute, non possono passare inosservate a chi deve garantire giustezza dei trattamenti. Il ruolo di garante dei diritti delle persone private della libertà personale (che certo non è l’unico che deve vigilare) è un ruolo duro, sfiancante, richiede empatia, determinatezza, piena conoscenza dell’organizzazione carceraria, dedizione. Il garante “assume ogni iniziativa volta ad assicurare che, alle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, siano garantiti i diritti fondamentali del cittadino e siano erogate le prestazioni inerenti al diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all'istruzione e alla formazione professionale e ogni altra prestazione finalizzata al recupero, alla reintegrazione sociale e all'inserimento nel mondo del lavoro” (dal sito della Regione Piemonte – Garante detenuti)Perché se nessun soggetto della catena delle garanzie si attiva, come è accaduto evidentemente per Vespino, si può morire per mancanza d’aria, e di cura.Ci aspettiamo ora che il  Garante dei detenuti del carcere di Ivrea chieda l’apertura di una inchiesta sulla morte di Vespino e che relazioni sul caso nella prossima seduta del consiglio comunale. E noi, società civile, dobbiamo considerare se questi sono uomini e chiedere che si faccia luce sulla vicenda.

Il carcere è sempre di più una fotografia della società esterna che a sua volta riflette, anche se lo rifiuta, i paradigmi della vita reclusa. – afferma l’ex-garante nazionale Mauro Palma - Percepisco molta asfissia nei rapporti tra le persone, difficoltà nelle relazioni e soprattutto il tentativo di eludere le complessità, cercando di risolvere i problemi portandoli altrove. Magari in Albania”. Riflettiamo anche su questo pensiero.

Chiudo con le parole di Vespino in uno dei suoi tanti articoli: Definire in una o poche parole il carcere è cosa ardua … una punizione, un parcheggio, un tentativo di recupero sociale … anche qui è un problema di prospettive, dipende da che latitudine lo si guardi. Quand’ero in libertà, forse per pigrizia mentale, forse perché ho sempre pensato che mai mi riguardasse, non ho mai avuto un’idea preponderante su questa realtà, né dal punto di vista istituzionale, né come deterrente al male sociale. Ora che ci vivo, molto semplicemente a me sembra uno spaccato della nostra società con alcune forti privazioni che determinano un’esasperazione dei rapporti interpersonali e delle dinamiche al suo interno. (Vespino)

Ciao Vespino, tocca ai tuoi compagni ora far uscire le voci del carcere perché arrivino fino a noi.

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