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Qualcosa di sinistra

Sotto il silenzio dei tribunali: lo stupro come arma di guerra nei conflitti del XX secolo

In questo contesto è da inserirsi la vicenda umana di Norma Cossetto

stupro di guerra

stupro di guerra

L’abuso sessuale è una costante in tutti i conflitti bellici, ma solo nel 1907, con la Convenzione dell’Aja, vi fu un primo tentativo di condannare questa aggressione come crimine di guerra. Gli Stati firmatari si impegnarono a far rispettare anche se solo nell’occupazione di territori esteri «l’onore e i diritti della famiglia».

Nonostante le numerose testimonianze di stupri e di riduzione in schiavitù sessuale ad opera delle forze armate di tutte le parti coinvolte nella seconda guerra mondiale, non risultano condanne per tali reati da parte dei tribunali militari internazionali istituiti a Tokyo e a Norimberga. La prima esplicita censura dello stupro con finalità belliche si rinviene nella IV Convenzione di Ginevra del 1949, per la quale «le donne saranno specialmente protette contro qualsiasi offesa al loro onore e, in particolare, contro lo stupro, la coercizione alla prostituzione e qualsiasi offesa al loro pudore».

Soltanto negli anni Novanta del ventesimo secolo, per i conflitti dell’ex Iugoslavia e del Ruanda, si iniziò a parlare di stupri che in entrambi gli scenari bellici assunsero, per la vastità e le modalità, la funzione di una vera e propria «arma di guerra».

Dinnanzi all’innegabile all’evidenza, nel 2001 si pervenne a qualificare lo stupro come «reato contro l’umanità»: il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (un organo giudiziario delle Nazioni Unite) adottò, per primo, una sentenza di condanna di alcuni miliziani serbo-bosniaci per lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale di decine di donne bosniache. Tale decisione della Corte, inoltre, ampliò la definizione di schiavitù - comprendendo quella sessuale – quale reato contro l’umanità. Un’acquisizione recentissima, quindi, nella cultura giuridica dei Tribunali internazionali.

In questo contesto è da inserirsi la vicenda umana di Norma Cossetto, la giovane studentessa istriana sequestrata e stuprata dai partigiani del maresciallo Tito che, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943, la gettarono, con altri, in una foiba.

Sul corpo di Norma Cossetto si è aperto – e perdura – uno scontro ideologico che non ha confronti per la violenza dei toni e la faziosità degli argomenti nazionalistici addotti per condannare o, viceversa, delle motivazioni pseudo-politiche e del clima nel quale maturò la violenza per giustificare gli esecutori materiali del delitto.

Siamo al «ratto delle Sabine»: il corpo delle donne è ancora oggetto di contesa in un ordine sociale e culturale imposto dagli uomini. Le guerre, non solo quelle armate ma anche le ideologiche, di propaganda, hanno spesso fatto uso e si sono spesso fatte scudo del corpo delle donne.

Sul dramma di Norma Cossetto, di tutte le donne violate nei contesti bellici, indulgere nei dettagli o – peggio – nella conta degli affronti non aggiunge nulla alla condanna dello stupro come atto di guerra, se non replicarlo in altra forma.

Ruotando intorno alla violazione della donna, la descrizione delle violenze estreme, il dettaglio del supplizio, genera sempre un’ulteriore brutalizzazione e disumanizzazione delle vittime. Il discorso storico e politico lo dovrebbe tenere in conto. 

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