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Cronaca

È morto Franz Paludetto, che arrivò a Rivara per sbaglio e si innamorò del suo castello

Si è spento stamattina all'età di 85 anni: il commosso ricordo di chi lo ha conosciuto

Franz Paludetto

Franz Paludetto

È morto Franz Paludetto, proprietario del castello di Rivara, gallerista, curatore e direttore, ma anche viaggiatore, avventuriero, "navigatore di acque non battute da alcuno". Si è spento questa mattina nel suo stesso castello. A comunicarlo, un post del museo di Arte contemporanea ospitato dalle stanze del castello di Rivara.

Prima di diventare gallerista aveva fatto di tutto: il barista a Mirafiori, il venditore di auto e il direttore del Rifugio Torino sul monte Bianco, dove nel 1958 ha fatto la prima mostra. Seduttore mondano, comunicatore e girovago per mezza Europa, ma anche amante della natura, Paludetto amava circondarsi di artisti.

Ha realizzato con il suo amico Aldo Mondino al Castello di Rivara un Centro d'arte contemporanea con una collezione di artisti come Nitsch, Penone, Opalka, Calzolari, Ontani. Ha organizzato tante mostre, fra le quali quella di Maurizio Cattelan. Nel 2010 il Castello di Rivara ha aperto la prima vetrina a Roma, nel quartiere San Lorenzo, con una serie di mostre personali di artisti tedeschi; il 22 settembre 2011 è nato il nuovo spazio di Torino.

"Nacque dalla parte sbagliata della storia"

Paludetto era nato a Oderzo, in provincia di Treviso, il 30 giugno del 1938. "Nasce dalla parte sbagliata della Storia - ha scritto sul profilo del castello di Rivara Fabio Vito Lacertosa -. Suo padre, infatti, è podestà di una città veneta di nome Oderzo. Viene sradicato ben due volte dall’infanzia: la prima per via del regime militare cui è sottoposto in famiglia; la seconda, alla fine della guerra, quando osserva cambiare il suo status e saggiando lo scotto dell’umiliazione pubblica, trattato come 'il figlio del fascista'".

Franz non ne comprendeva il motivo, "ma da allora - prosegue Lacertosa - la sua vita vira nel segno della ricerca di un’identità e di un posto nel mondo che fosse solo suo e nel quale nessuno potesse mettere definitivamente becco". Fu proprio questa sua volontà ad alimentarne la volontà di fare scelte anticonformiste e scabrose degli anni ’60 e ’70.

"In questo senso - prosegue Lacertosa nel suo racconto - pur affascinato dal ruolo degli intellettuali, ma identificandosi infine con chi non aveva studiato, poteva ritenere illuminante interrogare chiunque potesse dargli uno spunto per un’intuizione o un affare. E in questo turbine di azione ha travolto, convinto e trasformato chiunque lo conoscesse. Ha vissuto forte anzi fortissimo. Ha attraversato un secolo, una disciplina, una città, facendo assolutamente rumore".

E proprio per questo di Paludetto si è detto tutto. Ha alimentato leggende e ha acceso animi come si concede a poche persone al mondo. Tutti, addetti ai lavori o semplici comparse dell’arte, hanno un aneddoto speciale su di lui. Ma pochi lo hanno conosciuto davvero. Instancabile viaggiatore, investigatore di pensieri nuovi, avventuriero e talvolta incosciente navigatore di acque non battute da alcuno. 

L'arrivo a Rivara grazie a una coincidenza sbagliata

Ma come arrivò Paludetto a Rivara? "Tutto partì dal noto treno sbagliato a Milano - spiega Lacertosa - (la coincidenza per Chiasso scambiata per quella di Chivasso), l’esperienza del Rifugio Torino sul Monte Bianco, il ritorno in città che lo vide diventare in un colpo solo e quasi casualmente il gallerista di una esordiente Gina Pane e il socio di Jean Larcade (il gallerista di Yves Klein, ndr) con la galleria LP220, passando per Calice Ligure, Norimberga e Roma, fino a giungere alla “follia” del trasferimento a Rivara, nel Castello che nell’Ottocento fu sede della Scuola Di Rivara e un secolo dopo sarebbe diventato un’avanguardia mondiale".

Fino agli ultimi giorni, una doppia natura lo ha sempre contraddistinto: "da una parte il seduttore mondano, comunicatore e girovago per mezza Europa; dall’altra l’eremita, l’inappagato, il centrifugo flaneur circondato da artisti, intento a falciare l’erba del giardino del Castello. Di lui si narra dell’intuito leggendario, della sua capacità inesauribile di risorgere nell’arte dopo esser stato dato per finito più volte, decennio dopo decennio, ma anche di un carattere difficile e imprevedibile".

Quel suo essere "ai margini" che ne forgiò il carattere

Nonostante una fascinazione del bel mondo, infatti, era più a suo agio al fianco di chiunque fosse ai margini della vita e della morale borghese, e si definiva appunto “uno strano personaggio ai margini dell’arte”. "Per questa attitudine - lo ricorda chi lo ha conosciuto - poteva costruire rapporti elettivi ma anche profonde idiosincrasie".

Alcuni leggendari disaccordi con artisti o galleristi internazionali sono diventati temi goliardici di racconti e si contrappongono invece ad una serie di collaborazioni internazionali e sodalizi così stringenti da portargli paradossalmente maggiori riconoscimenti all’estero che in patria.

"Ciò che lascia al mondo - conclude Lacertosa - è il frutto dello sguardo rivolto verso ogni sommovimento, verso ogni segno che lui ritenesse 'significante' e verso ogni nuova occasione di innovare il proprio linguaggio. Nonostante il culto della novità, però, FP ha sempre detestato ogni forma di 'consumismo' del pensiero artistico ed ha cercato di essere estraneo al concetto di mode".

Per evitare di ricadervi "ha messo in atto quella che lui amava definire una 'verifica continua', alternando mostre grandi a mostre piccole (dette di segnalazione) che gli permettevano un confronto perenne sulla 'spinta' di una determinata scelta effettuata. Fino agli ultimi giorni di vita la sua ossessione era rimasta quella di capire quali fossero i nuovi movimenti, le ideologie a venire di un’era in cui tutti i riferimenti sicuri sembravano spariti alla vista".

La carriera artistica di Paludetto ripercorsa per date

Abbiamo già accennato al lavoro con Gina Pane (1969-70), prima assoluta in Italia, e continuiamo con una selezione stringata dell’attività espositiva fino ai giorni nostri, consapevoli della finitezza di un elenco riassuntivo come questo. Nei primi anni Settanta abbiamo le mostre di Luigi Ontani, Roman Opalka, Tania Moreaud, Jean Pierre Reynaud e Joseph Beuys.

Le performance di La Monte Young, Marian Zazeela, Pandit Pran Nath e Terry Riley (1971). Poi l’incontro con l’azionismo viennese di Hermann Nitsch e Arnulf Rainer (1972-73). Anche qui tutte prime volte. Poi Giuseppe Chiari, Ugo La Pietra, Gianni Piacentino, Giorgio Ciam, Aldo Mondino e le attività di Calice Ligure con la serie chiamata “A Calice ligure non c’è il mare”.

Poi ancora Luigi Ontani e Pier Paolo Calzolari. Si passa agli anni ’80 con le numerose mostre di Alighiero Boetti, Edward Kienholz, ancora Calzolari, Nitsch e Mondino, Paul Renner, Pino Pascali.

L’inizio del Castello di Rivara, con la sua rocambolesca storia, è datato 1985. “Un giorno Aldo Mondino mi disse: andiamo a vedere un posto, e dopo averlo visto la mia prima reazione fu: ma sei pazzo, non ci penso nemmeno…” Comincia la lunga serie di mostre degli artisti Sergio Ragalzi, Salvatore Astore, Ferdi Giardini, e comincia anche la grande collettiva annuale “permanente” denominata Equinozio d’Autunno (inizio nel 1987).

Dal 1986, con la sorprendente mostra di Aldo Mondino, al 1989 con l’incontro degli artisti inglesi (Julian Opie, Angela Bulloch, Richard Wentworth….) e tedeschi (Stephan Balkehnol, Bernd & Hilla Becher, Isa Genzken, Candida Höfer, …..) Tra la fine degli anni ’80 si consolida la presenza del gruppo di matrice milanese (ma non solo) composto da Umberto Cavenago, Marco Mazzucconi, Maurizio Arcangeli, Luca Vitone e Maurizio Vetrugno.

Gli anni 90 sono gli anni delle grandi mostre personali di Candida Hofer e Hermann Pitz, John Armleder, Dan Graham, Gordon Matta-Clark, Paul Thek e la collettiva “Itinerari” con le installazioni site-specific di Felix Gonzales-Torres. Nel 1992 è poi celeberrima e celebrata la mostra “Viaggio a Los Angeles” con le residenze di Raymond Pettibon, Charles Ray, Paul McCarthy, Larry Johnson, Lari Pittman, Jeffrey Vallance.

Sempre nel 1992 è “Il gioco del pensiero” a cura di Angela Vettese e Una Domenica a Rivara con il soggiorno al Castello di Maurizio Cattelan che termina con la realizzazione dell’iconico intervento della “Fuga dal Castel Vecchio “ che diede il titolo alla mostra.

Nel 1993 le mostre collettive “Time to Time”, “Menschen Welt” e le mostre personali di Allan McCollum e di Nicus Lucà. Nel 1996 “Pittura”, nel 1998 Boris Michailov e nel 1999 Miriam Cahn. Nei primi 2000 le mostre “Figurare”e Paloma Varga-Waisz, Ogni anno la grande “Equinozio d’Autunno” e l’inizio della centralità del Centro di Documentazione.

In parallelo la vita artistica per Franz Paludetto ha un altro centro fondamentale che è Norimberga. Li agli inizi degli anni 2000, con l’aiuto della seconda moglie Carolin Lindig, sposta per anni parte della sua attività con la creazione della galleria Lindig in Paludetto, ponte “artistico” ideale tra Italia e Germania che ha caratterizzato gli ultimi 25 anni della Sua carriera.

Intorno al 2010, attraverso l’esperienza romana di un piccolo spazio espositivo nel quartiere San Lorenzo il parterre si arricchisce di un gruppo di artisti come Daniela Perego, Elvio Chiricozzi, Oreste Casalini… “Su Nero Nero” è invece una grande mostra del 2011 che indaga il colore e i materiali in tutte le sue forme.

Nella seconda decade del 2000 si consolideranno il Progetto Permanente “Museo di Arte Italiana 19852015”, la nascita ufficiale del Centro Di Documentazione Cartaceo del Castello di Rivara (attualmente a cura di F. Arra). Gli artisti che più ricorreranno in questo periodo sono: Salvatore Astore, Maura Banfo, Domenico Borrelli, Adriano Campisi, Carlo D’Oria, Ferdi Giardini, Paolo Grassino, Enrico Iuliano, Paolo Leonardo, Nicus Lucà, Sergio Ragalzi, Francesco Sena, Luigi Stoisa, Maurizio Tajoli e Guido Airoldi.

Nel 2018 c’è “Gotico Industriale” (a cura di F. V. Lacertosa), un passaggio storico della città di Torino dagli anni ’80 ai ’90 e nel 2021 è la volta “Pittura Ambiente I” 2021 (Ibid.). Un ritorno importante alla scelta di giovani che raccontino la contemporaneità e la pittura nel rapporto con i luoghi del Castello.

Giovani come L. Arboccò, R. Baragliui, R. Blanco, S. Pigliapochi, A. Spatola, G. Preve, O. Sosnovskaya. Si legge dal testo critico: “È dunque curioso quell’impegno degli esseri umani nel decretare la morte della pittura, quando in realtà è sempre la pittura a dichiarare la morte delle cose”.

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