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14 Novembre 2020 - 16:18
Giancarlo Giorgetti (Lega) al Meeting CL di Rimini, agosto 2019
La prima e la seconda ondata (sperando che non ce ne sia una terza) di Covid-19 nel nostro Paese ha portato ai limiti - e talvolta anche superato - le capacità degli ospedali di assistere e ricoverare i pazienti. Pur con medici e infermieri sottoposti a turni massacranti, molti pazienti devono attendere ore - quando non giorni - al pronto soccorso, e per fronteggiare l’emergenza molti reparti sono stati riconvertiti in fretta e furia ad aree-Covid, con inevitabili ripercussioni sull’operatività standard. Ogni tanto si sente qualcuno dire: «Eh, ma perché vanno tutti al pronto soccorso? Si rivolgano al medico di base»: come se la gente non vedesse l’ora di trascorrere giorni e notti nei corridoi e nelle corsie dei nosocomi. Se «vanno tutti al pronto soccorso» (anche nei casi in cui non sarebbe necessario) evidentemente è perché nella medicina territoriale non trovano risposta alle loro esigenze immediate. I medici di base, pochi (sono sempre di meno, mediamente avanti nell’età, e quando vanno in pensione non sempre vengono sostituiti) e già oberati di lavoro in condizioni “normali”, ci sono e fanno tutto quel che possono. Ma in questa emergenza sono stati lasciati soli al fronte, e molti di loro sono stati contagiati dal virus. «Per le cure a casa dei pazienti con Covid - ha dichiarato nei giorni scorsi Silvestro Scotti, segretario nazionale della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg) - noi medici di famiglia siamo fermi alle indicazioni che ci sono state fornite tra marzo e aprile. Trattiamo gli assistiti con paracetamolo, ibuprofene, vitamine in prima battuta. Se invece la febbre si protrae, anche antibiotici e cortisone. Se sopraggiunge la dispnea e la saturimetria scende troppo indichiamo l’ospedale». «Per curare a domicilio i pazienti affetti da Covid - ha aggiunto il segretario Fimmg del Piemonte, l’eporediese Roberto Venesia - serve un protocollo di utilizzo omogeneo, compiti definiti, funzioni chiare. Le linee guida dovrebbero essere scritte con la collaborazione di virologi e pneumologi. Bisogna inoltre distinguere le terapie per le persone sotto i 50 anni e per i pazienti sopra i 50». Se ancora ce ne fosse stato bisogno, l’affanno del servizio sanitario nazionale durante l’emergenza Covid-19 ha mostrato con evidenza la necessità di investire maggiormente, dopo anni di progressiva riduzione delle risorse, nella medicina territoriale, in modo da dover «andare all’ospedale» quando effettivamente serve. Il medico di famiglia è un presidio fondamentale del servizio sanitario nazionale, e il suo ruolo va ripensato rendendo davvero centrale il rapporto privilegiato che ha con i cittadini, favorendo una sanità davvero di prossimità e territoriale. Se vogliamo tutelare le fasce di popolazione più esposte, perché anziane o affette da patologie cronico-degenerative, è auspicabile indirizzare le politiche di scelta allocativa delle risorse verso quattro direzioni fondamentali: il riequilibrio tra ospedale e comunità, l’offerta di servizi e strutture a carattere socio-assistenziale, una maggior coinvolgimento delle professioni sanitarie e maggiori investimenti in tecnologie. Il territorio piemontese, in particolare, è caratterizzato da una distribuzione della popolazione - in buona parte anziana - che non è concentrata solo nelle città; molti abitano nei piccoli centri, a volte distanti decine di chilometri dall’ospedale più vicino; ecco perché è indispensabile aprire “case della salute” (in cui, oltre che negli orari di ricevimento del proprio medico di base, si possa trovare assistenza nel corso dell’intera giornata) e ambulatori di prossimità dotati degli strumenti per la diagnostica di primo livello; ecco perché è necessario aumentare il numero degli infermieri di comunità e delle figure che possono assistere i pazienti senza «mandarli subito al pronto soccorso» e garantire ai malati cronici la continuità assistenziale di cui hanno bisogno: potenziare, insomma, la medicina territoriale, per essere vicini ai pazienti e non aumentare il carico di lavoro che oggi - e non solo in tempi di pandemia - pesa impropriamente sulle strutture ospedaliere. Checché ne dica Giorgetti, quello dei medici di base e, più in generale, della medicina territoriale non è un «mondo finito»: è un mondo che va riorganizzato per poter rispondere alle esigenze di oggi.Edicola digitale
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