Quando Schnellinger insaccò due minuti dopo il novantesimo, io avevo cinque anni. In una famiglia come la mia significava che ero a letto da un bel po’. Giugno 1970, mio padre solo davanti alla tv, fulminato come Albertosi dalla ciabattata di Schnellinger. Forse troppo solo per sopportare, venne a svegliarmi, era già successo l’anno prima, con l’uomo sulla luna. Iniziano i supplementari e davanti ad Albertosi, a due passi dalla porta, la palla rimane lì raminga come una fidanzata dimenticata all’autogrill. Per Gerd Mueller è uno scherzo metterla dentro. 2 a 1 per i crucchi, la partita sembra finita. Gigi Riva respira come avesse l’enfisema, Boninsegna insulta tutti e Domenghini sciabola cross surreali. È finita, Martellini lo fa capire con la morte nel cuore e nella voce a tutti i papà d’Italia, quindi anche al mio che dice: a nanna! Mi salvò Burgnich. Tarcisio, lo chiamava confidenzialmente il mio papà, che si trovò per caso al centro dell’area avversaria, sparò e insaccò. Poi il 3 a 2, calcio vero. Apertura di Rivera, fuga di Domenghini, cross al centro, palla a Riva: stop, finta, saluti al difensore tedesco, colpo di biliardo, rete. Un’equazione perfetta, lucida, seppur dopo 104 minuti di battaglia a duemila metri, cioè quasi senza ossigeno. Era dall’8 settembre che i nostri papà avevano dei conti in sospeso coi tedeschi, e pensare di vincerli nella semifinale dei mondiali doveva essere qualcosa di vicino all’estasi. Ma… C’era un ma, anzi due. E in entrambi c’è Gianni Rivera. Parte un traversone, Albertosi rimane prudentemente sulla linea di porta e non raccoglie una palla facile. La rastrella Müller, ancora lui, e con una zuccata la spara verso la porta azzurra. Il portiere avrebbe potuto lanciarsi, ma sulla traiettoria c’è Rivera. “Se blocca me – sembra pensare – sbarra anche il viaggio al pallone!” Rivera, il Golden Boy, il giocatore che anche i brasiliani ci invidiano, un fuoriclasse di rara eleganza. Ora ferma la palla, dribbla un paio di vichinghi e vola via. È ciò che in quel secondo pensano tutti gli italiani, compreso mio papà. Ma non Rivera: s’impaccia, s’impiglia, fa un saltello che neanche l’etoile della Scala e si gira, incredulo, a osservare il pallone in rete. Albertosi esplode di rabbia, la Germania di gioia, l’Italia perde l’equilibrio, cade nello sconforto, io inseguo lo sguardo perso di papà. Questa volta non ci rialziamo, la sensazione mostruosa è nel cuore di tutti. Eccetto quello di Rivera. Palla al centro, inizia proprio lui, poi De Sisti e mentre il telecronista piange ancora l’occasione perduta si porta avanti tagliando il prato in verticale. Il pallone scende parallelo calciato da Capitan Facchetti, incrocia i piedi di Boninsegna che riesce a infilare un tiro all’indietro. Ma perché all’indietro, diavolo d’un Boninsegna, tu che sei un centravanti? Perché dove va la palla c’è Gianni Rivera, al posto giusto, al centro dell’area avversaria. Si coordina con la calma dei forti e colpisce di piatto destro proprio dove c’è il portiere che però, per inerzia, continua la sua corsa verso l’inferno. Tenta sì, di allungare il piede, metterci la punta, contrastare l’energia che inesorabile lo trascina da una parte mentre il pallone, immutevole, viaggia dall’altra. E mentre lui rovina miseramente di qua, la palla passa di là ed entra in porta. Italia – Germania 4 a 3.
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