Mi sembra che la favola di Esopo della cicala e la formica si attagli bene al nostro presente, nel quale, lo stigma svalutante e l’atteggiamento di rapina verso la campagna, verso chi vi abita e vi lavora, rischiano di trasformarsi in un potente boomerang. La clamorosa protesta dei pastori sardi che, lo scorso anno, con i fiumi di latte versato in strada denunciavano il niente pagato loro per il latte necessario alla produzione del pecorino romano, riassume bene le storture della filiera alimentare nazionale. Nell’emergenza che stiamo affrontando potremmo trovarci a dover rivalutare il mondo rurale, determinante per l’approvvigionamento alimentare da cui dipendono le città. Per ora gli osservatori non hanno dedicato che poche righe al ruolo della campagna, intesa come luogo ove si generano i mezzi di sussistenza alimentare, concentrandosi invece sui problemi legati alla mancata produzione industriale e dei servizi. Ancora pochi osservatori richiamano l’attenzione sulla produzione agricola nazionale messa a rischio a causa della mancanza di manodopera. In un saggio del sociologo torinese Luca Ricolfi che punta dritto al cuore del problema, quella italiana viene definita una «società signorile di massa» caratterizzata da una «minoranza che lavora e genera surplus e una maggioranza che accede al surplus senza contribuirvi» e dalla presenza di «un’ampia struttura paraschiavistica di cui la componente straniera è una componente essenziale». È proprio il caso delle campagne, nelle quali – sono parole del presidente di Confagricoltura – lavorano «un milione e 100 mila operai agricoli, di questi 400 mila sono stranieri regolari, circa il 36 per cento del totale, in maggioranza romeni». In un recente comunicato stampa, Confagricoltura chiarisce che «sul totale dei lavoratori agricoli il 90 per cento è assunto a tempo determinato e la manodopera agricola è prevalentemente impiegata nel Sud del Paese». Mentre si accenna alla necessità subito di circa 200 mila lavoratori stagionali, nel discorso di Confagricoltura non si fa parola sulla manodopera straniera che, d’estate, lavora in condizioni terribili nelle campagne del Mezzogiorno. Un esempio? Nel 2019 per la raccolta delle angurie nelle campagne pugliesi, si lavorava per dieci ore giornaliere, con una retribuzione per tariffa a cottimo di un euro e 40 centesimi per quintale di angurie raccolte. Secondo la Gazzetta del Mezzogiorno, il Dossier statistico immigrazione del 2019 ha evidenziato come un quarto di quanto prodotto in Italia sia realizzato grazie all’apporto dei lavoratori stranieri e, in Puglia - in Capitanata - si concentra quasi il 28 per cento delle 973mila giornate di lavoro degli immigrati impiegati in lavori stagionali. Mentre i sindacati propongono una sanatoria per gli immigrati illegali che lavorano nelle nostre campagne, la Ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova – di fronte all’emergenza di lasciare sguarniti i campi e le colture a marcire senza essere raccolte – propone che siano impiegati nei raccolti «i percettori di sussidi pubblici, chi ha il reddito di cittadinanzao il sussidio di disoccupazione». Forse alla ministra Bellanova manca la lettura del libello sui «signori» di oggi.
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