"Le sentenze di primo grado impugnate meritano una ferma censura per quanto attiene l'elemento soggettivo. Appare francamente singolare la prospettazione secondo la quale un pubblico ufficiale, oltretutto destinatario di un mandato popolare, non sarebbe in grado di rendersi conto di violare una norma penale nel momento in cui, con riferimento al denaro pubblico affidatogli dalla collettività a determinarti fini, se ne serva per interessi personali propri o altrui". Lo scrivono i giudici Elisidoro Rizzo (presidente), Furio Pellis e Gianni Macchioni, della prima sezione penale della Corte di Appello, nelle motivazioni della sentenza sui costi della politica in Valle d'Aosta. Sentenza che ha condannato 15 dei 27 imputati. Le accuse erano, a vario titolo, di peculato, finanziamento illecito al partito e indebita percezione di contributi pubblici. "Analogamente - proseguono i giudici - non persuade affatto la prospettazione secondo la quale sarebbe indice di tale inconsapevolezza la scelta dell'agente di compiere un simile utilizzo illecito in modo rintracciabile da parte di terzi. Al fine di accertare la responsabilità penale in relazione ad un determinato delitto ciò che interessa verificare non è che l'agente fosse consapevole di violare la legge penale, ma solo che egli abbia posto in essere la condotta ascrittagli con coscienza e volontà rispetto a tale condotta medesima". In primo grado i giudici Maurizio D'Abrusco e Giuseppe Colazingari avevano assolto tutti gli imputati sia "perché il fatto non sussiste" sia "perché il fatto non costituisce reato".
"Ferma restando l'assoluta inverosimiglianza della tesi - si legge nelle motivazioni - secondo la quale gli imputati, malgrado le loro responsabilità nei confronti della collettività che volontariamente rappresentavano, non fossero consapevoli di ciò che facevano quando maneggiavano il denaro loro affidato da tale medesima collettività, una simile eventualità, quand'anche fondata, ai fini che qui interessano non avrebbe alcun rilievo". "Non ne avrebbe - prosegue - nemmeno sotto il profilo dell'intensità del dolo, dovendosi per forza di cose, stante la posizione di qualificata (in quanto politica) responsabilità pubblica degli imputati, annettere una intensità dell'elemento soggettivo non inferiore ove risultasse da parte loro un disinteresse nei confronti dei confini giuridici di tale medesima responsabilità, esteso fino al punto di ignorare la differenza fra appannaggio pubblico e appannaggio privato".
Le motivazioni della prima sezione penale della Corte di Appello di Torino sono raccolte in 184 pagine, con un indice di 16 punti.
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