Neologismo? Un corno del problema? Scontro di civiltà? Attentato alle libertà fondamentali? Bisognerà attendere che l’attenzione cali, che si abbassino le luci dei riflettori, che l’effetto di trascinamento dei fatti di Parigi diminuisca, che l’orrore per le immagini insistite e ripetute – come se da queste ne derivasse un qualche insegnamento aggiuntivo – per arrivare, forse, ad una qualche considerazione che non sia la piatta ripetizione di quanto abbiamo sentito in questi giorni. La politica non ama la satira, la religione – qualunque religione – tanto meno. Tante volte è calata la censura in questo benedetto Paese la cui classe politica oggi – al netto dei diversi D’Alema e compagnia cantando – si scopre a favore, tout-court, del diritto di espressione. Esiste però una censura più sottile, quasi un’auto-censura, che riguarda chi pubblica e, di conseguenza, chi scrive. La censura della committenza, in Italia più forte che in altri Paesi – dato il numero esiguo di lettori – più forte per le testate indipendenti, fortissima per le piccole. Anche Charlie Hebdo se la passa(va) male – a rischio di chiusura – non per i fondamentalisti che ne hanno decimato la redazione ma a causa del libero mercato che se ne frega della libertà di espressione, così come se la passa male Liberation (il giornale della Gauche la cui sede sembrava destinata ad essere ceduta e trasformata in centro congressi), che ha messo a disposizione i propri locali perché Chiarlie Hebdo possa continuare. Già, ci accorgiamo che una cosa ha valore solo quando qualcuno prova a prendersela, sia il vecchio paio di ciabatte che avremmo volentieri buttato nel pattume, sia la libertà di movimento e di espressione e che, ormai da parecchio, ci suggeriscono di cedere per un po’ più di sicurezza. Il 50 per cento degli italiani non va mai in edicola, il 57 per cento non legge nemmeno un libro all’anno. A sfogliare ogni tanto i quotidiani siamo rimasti poco più di 23 milioni e mezzo, e negli ultimi anni hanno chiuso numerosi giornali: l’Unità è stata l’ultimo a cadere, cessando le sue pubblicazioni lo scorso luglio. Così constatiamo che i giornali, soprattutto le testate piccole e indipendenti che non possono fare affidamento che sui lettori e – da un po’ – neanche su quelli, debbono ripiegare o piegarsi o non affrancarsi mai dal mercato, quello della pubblicità e dello sponsor, economico o politico che sia. Sarà che i lettori, non leggono e se leggono non comprano e preferiscono solo sfogliare, sarà che gli sponsor commerciali e politici vogliono la loro parte, sarà che i cortigiani si annidano in ogni dove, nelle sezioni dei partiti come nelle redazioni dei giornali, sarà. Ecco allora che i fogli sono perlopiù manchettes pubblicitarie e gallerie fotografiche con la notizia come contorno e in questi, meno che meno, c’è spazio per la critica o per la satira.
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