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22 Gennaio 2020 - 11:16
Francesco, il padre di Giacolino, oltre che ad essere stalliere e ciabattino, si dedicava a tenere in ordine i giardini e gli orti dei “ricchi”.
Negli ultimi tempi aveva acquistato una mucca da latte, che teneva rinchiusa in una stalla costruita in pietre, un po’ fuori del paese. Gli avevano concesso il rudere per ricoverare la mucca ma non il prato circostante; perciò niente pascolo all’aperto.
Giacolino, nel 1934 aveva compiuto 10 anni. Il padre nei suoi confronti era severissimo. La madre arrotondava il bilancio familiare lavando panni dal mattino alla sera nelle gelide acque delle rogge, le bealere, rincasando soltanto per apparecchiare l’umile desco. Era talmente miope che per riconoscerti si avvicinava ad un palmo dal naso, oppure dalla voce se la salutavi.
La sua magrezza, probabilmente, era dovuta allo scarso cibo di cui disponevano. Si poteva giurare che mai uomo, altre al marito, l’avesse avvicinata per motivi che non fossero di parentela, o di qualche richiesto servizio domestico.
Giacolino l’aiutava a portare i panni lavati e pesantissimi da stendere. Francesco, detto Cesco ëd Pautilla, era sempre vestito con abiti da lavoro di recupero, abiti smessi. Indossava una giacchetta quasi logora e all’occhiello portava – su consiglio di Giorgio, fascista del momento – la cicca, così era chiamato il distintivo del PNF (Partito Nazionale Fascista); l’aveva portato per tanti anni, infilato nell’asola di quell’unica consunta giacchetta di recupero, senza mai averne capito il significato.
E Giorgio, per ricompensarlo, aveva brigato presso il Fascio regionale per portare Giacolino e Oreste Vivo con la sua Fiat Balilla al Campo estivo di Pré-Saint Didier in Valle d’Aosta.
Molta gente sostava vicino alla Balilla in partenza, anche per il motivo che, nei pressi, Pero ëd Martin aveva esposto nella vetrina del suo negozio della “fressa”, fegato di maiale lavorato con aggiunta di profumate erbette; molta gente era accorsa per poter gustare la partenza dell’automobile, una rarità, non tutti i giorni si poteva ammirare la Balilla.
Giacolino e Oreste sembravano smarriti ma contenti, guardavano dal di dentro della Balilla la gente che li esortava ad essere bravi. Finalmente, Giorgio l’esattore – molto compito nella sua divisa d’orbace – si mise alla guida.
Gli amici rimasti ad osservare, non troppo poveri per essere ammessi al Campo Dux, ne soffrirono: che colpa avevano se non erano sufficientemente poveri?
Alcune madri sarebbero state ben disposte a far partire i loro figli; una bocca di meno da sfamare. Oreste viveva con la madre, un fratello e una sorella, la nonna li aiutava a sfamarsi.
La gente non capiva molto di politica e una madre, assorta nella partenza della Balilla, disse: «Dovrebbero fargli un monumento d’oro…». Il monumento riguardava Mussolini; un monumento al Duce del fascismo.
Luglio trascorse rapidamente. Il Campo Dux di Pré-Saint-Didier era pronto ad accogliere i nuovi arrivi di Agosto. Giorgio arrivò con Giacolino e Oreste. Il Partito per dare risalto alle Colonie fasciste organizzò il benvenuto. Ad attenderli, le scolaresche coi relativi insegnanti apparentemente tutti fascisti, pena la perdita dell’insegnamento.
La maestra fra le maestre più fasciste fece intonare inni di regime.
Il Gerarca di turno, in orbace, iniziò il solito discorso di propaganda: poi, tutti a casa, i soddisfatti e i non.
Cesco accolse Giacolino con poco entusiasmo, come se non fosse mai partito, ma soltanto assentato per pochi minuti. Nessuna esternazione di affetto, un po’ la madre: probabilmente doveva nasconderlo per non irritare Cesco. Per un po’ di tempo sfoggiarono una maglietta regalata dal Partito in Colonia con la scritta Campo Dux; pare che in seguito la indossassero come pigiama, talmente ne andavano fieri.
Cesco era uno stalliere molto serio per quanto riguardava la stalla. Aveva inchiodato nel centro della porta un biglietto molto ben scritto da chissà chi, e recitava: Lo stalliere declina ogni responsabilità di quanto accade nello stallaggio.
Andava molto fiero di quell’avvertimento al pubblico, gli dava un po’ di tranquillità e «meno responsabilità civile», come diceva in giro alla gente, per fare capire l’importanza dello scritto.
Si seppe che era stato il podestà a consigliare Cesco ad affiggere lo scritto, redatto da suo cugino, consigliere comunale. La storia della “responsabilità civile” saltò fuori quando una mula recalcitrante aveva ridotto a mal partito la cavalla di Emilio.
Il proprietario della mula, Vincenzo, intendeva addossare la “responsabilità civile” a Cesco.
I carabinieri intervenuti istantaneamente, allora non avevano tante brighe da risolvere, affermarono che: «La responsabilità è del mulo di Vincenzo, lo stalliere non può fare la guardia giorno e notte ad una mula impazzita».
Il segretario comunale e il podestà furono d’accordo: confermarono la sentenza sgorgata lì per lì dai carabinieri. Vincenzo se la prese con il carabiniere che aveva sentenziato essere la mula pazza e cattiva. Vincenzo rimuginando pensò: la mula è stata in guerra in Africa nel 1936, ha preso parte a tutte le battaglie compresa la conquista dell’Endertà, che sia veramente impazzita?
Ma non disse nulla di quanto aveva pensato. Giacolino e compagni trascorrevano il tempo a saltare le rogge, le bealere. Ed era anche molto pericoloso; ma non vi era nulla da fare, ne erano inesorabilmente attratti.
Cesco usava sovente la curea, la cintura dei pantaloni; non importava che altri vedessero, anzi, era una prova che lo guidava verso il “bene”, che gli insegnava l’educazione.
La madre non condivideva le cinghiate ma taceva, non si era mai capito se fosse solo succube del marito o infinitamente timida.
Vicino al “cios” di Arturo al Seminer vi erano centinaia di alberi di quercia, regno incontrastato di quei magnifici uccelli chiamate ghiandaie e, solo lì, allignavano. Oggi, forse, sono spariti ovunque. Il “cios”, toponimo di origine francoprovenzale che significa luogo ristretto ma ben definito di terreno, senza coltura specifica.
Il terreno vicino era ricco di alberi di noce e le ghiandaie edificavano i loro nidi. Giacolino era molto bravo ad arrampicarsi sugli alberi, e i compagni attendevano che scendesse, e poi, tutti ad ammirare gli ovetti tolti dal nido non ancora schiusi. Giacolino era riuscito a catturare una ghiandaia, poi rinchiusa in una gabbia costruita alla bell’e meglio.
Il padre lo aveva punito con molte cinghiate e liberato l’uccello. Secondo il padre non si doveva chiudere in gabbia un uccello, ché sarebbe sicuramente morto.
Molti riuscivano a addomesticarli e far pronunciare loro qualche parola. Ma poi, inesorabilmente morivano. Nella stalla di Cesco era ricoverato Vento, il cavallo di Giaco Grasso, vetturale in “servizio pubblico”.
Nel 1932 aveva trasportato il Principe di Piemonte durante i campi estivi, per divertimento, di qua e di là. Giaco Grasso usava anche la stalla per altri scopi quando incontrava Maria Teresa, una riconosciuta prostituta e ladra, condannata anche per ubriachezza molesta; la sua fedina penale era lunghissima. Cesco sapeva e si lamentava, ma finiva tutto nel nulla.
I carabinieri per mettergli paura gli dicevano che lo avrebbero arrestato per “connivenza continuata”: tanto lui ignorava cosa fosse la connivenza. La stalla e l’abitazione di Cesco erano proprietà della Congregazione di San Francesco, così si diceva, ma i veri padroni saltarono fuori quando si seppe che per la stalla, antica di secoli, erano necessari alcuni interventi da parte dei muratori.
I padroni senza tante storie pretesero da Cesco il pagamento dell’affitto ammontante a 30 lire annue. Cesco otteneva un affitto “basso” per la sua opera costante nei riguardi della Confraternita, proprietaria di molti orti e giardini sottratti a chi aveva richiesto un prestito in denaro e poi impossibilitato a restituirlo. Gli orti previa la manutenzione di Cesco, si notavano per la grande quantità di verdure e frutta locale.
Era un lavoro portato avanti con «garbo e serenità» diceva il priore maggiore di Ivrea: e il lavoro veniva pagato in sostituzione dell’affitto.
Ma ora, dover pagare l’affitto sconvolgeva l’andamento familiare. Cesco non si perse d’animo. Al Gorre, dove nella casa di pietra viveva Venezia, la mucca non troppo giovane avuta in prestito, impiantò un’altalena, una biauta.
Le corde erano legate ad un altissimo e solido rama di un altrettanto alto castagno.
Il Gorre era costellato di magnifici alberi, in primavera e in estate si respirava aria purissima. La biauta Cesco l’aveva voluta per attirare i giovanissimi: alle cinque mungeva Venezia e distribuiva il latte ancora tiepido, ognuno disponeva di una ciotola; il prezzo era scontato, quattro soldi, venti centesimi di lira per quasi mezzo litro.
Per due minuti di altalena bisognava mettersi in coda, aspettare il turno. Cesco era sempre indaffarato tra una spinta e l’altra a tenere a bada i più agitati, che non vedevano il momento di farsi spingere il più alto possibile. Alcuni ragazzi di una borgata vicina, che non erano clienti del latte, si avvicinavano timorosi nella speranza di un giro gratis in biauta e, Cesco, quasi sempre li accontentava, mettendoli, però, in coda.
Era una biauta veramente gigante, le corde legate al ramo erano lunghe 15 metri, un’altezza da capogiro. Un giorno durante il “biautamento” si avvicinano due carabinieri accompagnati dal podestà, vogliono accertare «chi è quel giovane, che durante la notte si è sfracellato nel burrone di Letusa, vicino alla casa di pietra, caduto dal roc di Claro».
Era stato Cesco ad avvertire il podestà che lì vicino giaceva una persona. Era un giovane del fondo valle, che rincasando durante la notte dopo aver preso congedo dalla fidanzata di Montepiano, aveva smarrito il sentiero precipitando per cinquanta metri; aveva 19 anni.
Giacolino e combriccola trascorrevano il tempo a rubacchiare la frutta sugli alberi, la famosa “fretta”, la maroda dicevano i più evoluti torinesi in vacanza.
Cesco, improvvisamente viene ricoverato all’ospedale Mauriziano di Torino, solo i parenti conoscono la diagnosi. Ritorna a casa, ma impiega molto tempo a riprendersi.
La biauta dondola al vento, vuota; la stalla è senza vita; negli orti al posto della verdura alligna l’ortica e il papavero selvatico. La banda dei ragazzi sembra aver capito il triste momento, e fra di loro regna la calma assoluta. Le nuvole compatte della guerra stanno oscurando il cielo, al Gorre, nel punto della biauta, compaiono le casermette della GAF, guardia alla frontiera, è la guerra. Mai più biauta e Venezia. Solo gli inni di guerra.
Cesco muore in silenzio, come era vissuto. Una mano pietosa gli sfila la cicca, il distintivo fascista portato come si porta il fazzoletto in tasca.
Giacolino vivrà stentatamente ancora molti anni: nel freddo, avvolto dalle terribili ansie dell’alcool, e nei ricordi privi di commozione.
Testo tratto dalla rivista Canavèis
Mario Contratto
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