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Guerra ovunque, pace da nessuna parte: Ivrea resiste al 195° Presidio. Ancora un appello per Bei Unmar

Dalla violenza sulle donne alle ferite di Gaza e Cisgiordania, dalle armi europee alla leva obbligatoria in Germania: voci, dati e testimonianze che hanno attraversato la piazza eporediese nel nuovo appuntamento del Presidio per la Pace

Ivrea i presìdi per la pace non arretrano di un passo. Siamo arrivati a 195. Sabato 22 novembre, in piazza di città, il microfono è passato di mano in mano con un unico filo conduttore: la pace. Non come parola astratta, ma come linea che tiene insieme la violenza sulle donne, i bombardamenti su Gaza, la repressione in Cisgiordania, la corsa al riarmo in Europa, il ritorno della leva obbligatoria in Germania.

Pierangelo Monti ha ricordato che il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, nata dal sangue delle tre sorelle Mirabal, torturate e uccise nel 1960 dalla dittatura del generale Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana. Non è stata, ha chiarito, una parentesi “di rito”: la violenza sulle donne non è solo tragedia domestica, ma vera arma di guerra. «Nelle guerre lo stupro diventa una strategia militare deliberata: serve a spezzare la coesione sociale, a umiliare comunità intere, a ridurre le persone in frantumi», ha sottolineato. E mentre in Italia ogni anno si contano quasi cento femminicidi, in tanti scenari di conflitto le donne non hanno neppure un numero da chiamare o un centro a cui rivolgersi: non c’è legge, non c’è tutela, spesso non c’è nemmeno il diritto di nominare ciò che hanno subito.

Dalla violenza di genere alle violenze di Stato, il passo è stato brevissimo. Tra le notizie della settimana che Monti ha messo al centro c’è la nuova fase del piano di Donald Trump per Gaza e la sua proposta per l’Ucraina. «Il 17 novembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato la risoluzione 2803: tredici voti a favore, astensione di Russia e Cina. Sulla carta si parla di stabilizzazione, nei fatti si affida a Trump il controllo della Striscia fino al 31 dicembre 2027, con un misterioso “Consiglio di Pace” i cui membri saranno scelti direttamente dalla Casa Bianca. Una forza internazionale, formata in gran parte da Paesi musulmani, avrà il compito di smilitarizzare Gaza e disarmare Hamas, ma il risultato politico è chiarissimo: Gaza viene separata dal resto della Palestina e avviata verso una sorta di protettorato de facto…»

A questo quadro Monti ha affiancato l’analisi dell’economista Jeffrey Sachs, docente alla Columbia University, che in un articolo uscito pochi giorni prima ha parlato senza giri di parole di «imperialismo mascherato da processo di pace»: una sorta di ritorno al Mandato britannico, ma con Washington al posto di Londra. «Sachs descrive una strategia classica: divide et impera. Pressioni, ricatti economici, minacce di esclusione da tecnologie e finanziamenti, fino ai bombardamenti israeliani su chi non si allinea. E intanto la Palestina rimane vittima infinita delle manovre statunitensi e israeliane, mentre il fuoco bellico si allarga dal Corno d’Africa al Libano, dalla Siria allo Yemen, dall’Iraq all’Iran…»

Nel frattempo, sul terreno, la tregua a Gaza è rimasta più un’illusione che una realtà. Le piogge torrenziali hanno allagato una Striscia già devastata, ma appena l’acqua ha smesso di cadere sono ripresi bombardamenti e raid mirati. L’esercito israeliano ha colpito ancora nel sud e nel centro della Striscia e, allo stesso tempo, ha continuato le operazioni quasi quotidiane nel Libano meridionale e nella valle della Bekaa per limitare il riarmo di Hezbollah. «A Gerusalemme i partiti dell’opposizione contestano duramente il governo per la scelta di istituire una propria commissione d’indagine sui fallimenti del 7 ottobre 2023: niente organismo indipendente, niente assunzione di responsabilità reale», è stato ricordato. La violenza della guerra, così, è entrata anche negli ospedali.

Monti ha fatto suo l’appello per la liberazione del dottor Hussam Abu Safiya, pediatra e neonatologo, direttore dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, in carcere dal 27 dicembre 2024 senza accuse formali. «La sua avvocata parla di dimagrimento drastico e di segni evidenti di tortura. La sua immagine, in camice bianco tra le macerie, era finita su una locandina di uno dei Presìdi di Ivrea: l’uomo che cammina verso due carri armati è lui, poco prima dell’arresto… Con lui sono stati fermati altri operatori sanitari, mentre i pazienti più gravi venivano evacuati in condizioni disperate…»

I numeri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno dato un peso ancora più drammatico al racconto: tra ottobre 2023 e maggio 2025 l’esercito israeliano ha colpito 720 obiettivi sanitari, tra cui 125 strutture, 34 ospedali, 186 ambulanze. Sono morti 1.722 tra medici, infermieri e soccorritori: il più alto numero di operatori sanitari uccisi in una zona di guerra mai registrato. In questo quadro Monti ha richiamato anche il ruolo del Centro Studi Sereno Regis, di AssoPacePalestina, delle Comunità Palestinesi in Italia, che hanno promosso una giornata di digiuno per Gazadedicata a Marwan Barghouti, da 23 anni prigioniero in Israele, figura simbolo di una pace possibile e di una diversa rappresentanza politica palestinese.

Il Presidio ha guardato poi a Bruxelles. Il movimento internazionale StopRearm Europe, che raccoglie oltre 800 associazioni – tra cui la Rete Italiana Pace e Disarmo, Sbilanciamoci, la Fondazione Perugia Assisi, Greenpeace – ha lanciato un appello al Parlamento europeo in vista del voto sul bilancio 2026, che quintuplica le risorse per difesa e spazio e spalanca programmi civili alle industrie belliche. La Scuola per la Pace Torino e Piemonte ha firmato una lettera aperta agli europarlamentari italiani: 800 miliardi in armi sono stati definiti «soldi rubati» alla sanità, alla scuola, al lavoro, alla cooperazione, alla giustizia climatica. Più armi, è la denuncia, non porteranno sicurezza ma guerra più vicina, più debito, più confini, più razzismo.

Sul fronte italiano, Monti ha richiamato un articolo di Alberto Sofia sul Fatto Quotidiano: un gruppo di ONG – AssoPacePalestina, ARCI, ACLI, Pax Christi, Un Ponte Per, ATTAC Italia – ha depositato al Tribunale civile di Roma un atto di citazione contro Leonardo Spa e lo Stato italiano, chiedendo di dichiarare nulli i contratti di fornitura di armi all’IDF, le forze armate israeliane. L’avvocato Luca Saltalamacchia ha ricostruito un mosaico inquietante: componenti per gli F-35, addestramento per piloti che poi bombardano con F-35 ed F-16, manutenzione degli M-346, radar di difesa a corto raggio e anti-drone, autocarri speciali per la mobilità dei mezzi pesanti, cannoni navali 76/62 “Super Rapido” prodotti a La Spezia dalla controllata OTO Melara, utilizzati sulle corvette della Marina israeliana. E soprattutto i componenti per le bombe GBU-39, quelle alette che si aprono dopo il lancio e guidano la bomba con precisione micidiale verso il bersaglio. «Se il tribunale riconoscerà la nullità dei contratti – hanno spiegato i ricorrenti – Leonardo e lo Stato italiano non potranno più garantire sostegno militare a Israele.»

Mario Beiletti ha riportato poi l’attenzione sull’inferno quotidiano a Gaza e a Beit Ummar, la cittadina palestinese gemellata con Ivrea. La tregua annunciata da Benjamin Netanyahu con il placet di Donald Trump, e neppure concordata con l’Autorità Nazionale Palestinese, ha retto a fatica. Gli aiuti alimentari sono arrivati col contagocce, distribuiti male, spesso in luoghi lontani dalla popolazione. Prodotti considerati “troppo energetici”, come biscotti e miele, sono stati bloccati per decisione delle autorità israeliane. Nei campi profughi le tende non hanno protetto né dal freddo né dalla pioggia, mentre i coloni – protetti dall’esercito – hanno reso la vita impossibile: case distrutte, ulivi bruciati, spostamenti impediti, civili presi di mira.

«In tutta la Cisgiordania, dall’inizio dell’anno, si contano circa 1.500 attacchi di coloni» ha ricordato Beiletti, citando i dati delle Nazioni Unite e il monito del coordinatore degli aiuti di emergenza Tom Fletcher, secondo cui l’impunità per questi atti è «incompatibile con il diritto internazionale».

Da Beit Ummar, e più in generale dall’intera Cisgiordania, sempre più stretta in un assedio armato che ha il volto dei coloni e dei soldati, sono arrivati messaggi in tempo reale, con nomi oscurati per sicurezza. Una testimone ha raccontato che «all’alba del 5 novembre decine di veicoli militari hanno circondato i quartieri, hanno perquisito casa per casa, distrutto porte e mobili, terrorizzato i bambini. I detenuti sono stati radunati nel cortile della scuola superiore, picchiati e insultati; farmacie e panifici sono rimasti chiusi, oltre 400 persone sono state arrestate e maltrattate».

Un’altra donna ha scritto disperata che i soldati hanno arrestato i suoi fratelli e i figli dei suoi fratelli, devastato la casa, e che la bambina di famiglia – già malata – non ha potuto accedere alle medicine perché l’esercito ha chiuso le farmacie e per le strade non si trovava un medico. «Perfino il sonno ce lo portano via», ha concluso.

Accanto all’attualità, il Presidio ha tenuto viva anche la memoria. Livio Obert, appena rientrato insieme a Monti da un incontro con il vescovo Daniele Salera su Luigi Bettazzi, ha ricordato l’ultima volta in cui il vescovo emerito prese la parola in pubblico: domenica 7 maggio 2023, proprio a Ivrea, quando la “Staffetta per l’umanità” fece tappa al Presidio per la Pace. In quell’occasione Bettazzi indicò tre strade per uscire dalla spirale bellica: cambiare mentalità, abbandonando la risposta automatica «arma contro arma»; impegnarsi davvero nella diplomazia, non dopo sessanta giorni come ha fatto l’Europa in Ucraina; praticare l’interposizione, con volontari e corpi civili in mezzo ai fronti, come già avvenuto in Libano e, nel piccolo, a Sarajevo nel 1992. «È difficile, certo – diceva – ma se l’ONU è paralizzata dai veti, tocca ai popoli e alle coscienze farsi avanti».

Su questo solco si è inserito l’intervento di Giorgio Franco, che ha spostato lo sguardo sull’Ucraina e sul piano di pace proposto da Trump. Franco non si è limitato a riportare le critiche di Carlo Calenda, Pina Picierno e della classe dirigente europea: le ha utilizzate come grimaldello per una domanda secca – esiste davvero una pace giusta? – e per mettere sotto accusa le scelte di questi due anni. Ha sostenuto che, se l’Europa avesse lavorato con realismo a un negoziato con il Cremlino dopo la prima reazione all’invasione, oggi il piano della Casa Bianca sarebbe forse un armistizio duro ma meno umiliante, e non una resa scritta altrove.

Il progetto di Trump – con un’Ucraina sotto protezione NATO ma senza Donbass e Crimea, la promessa di non ulteriori allargamenti dell’Alleanza e il ritorno della Russia nel G7 – è stato respinto dalle capitali europee in nome di una pace “non punitiva”. Ma, ha denunciato Franco, gli stessi governi che oggi storcono il naso hanno appena autorizzato il dodicesimo decreto di aiuti militari a Kiev, riuniti attorno al tavolo del Consiglio Supremo di Difesa con il Presidente Sergio Mattarella, Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Guido Crosetto e gli altri ministri chiave. Nessun vero dibattito parlamentare, nessuna svolta diplomatica, solo la ripetizione del mantra ufficiale: «il conflitto non mostra segnali di distensione».

Franco ha contestato anche le parole con cui Mattarella ha paragonato la Russia al Terzo Reich, ricordando che l’Unione Sovietica ha pagato la sconfitta di Hitler con 27 milioni di morti. E si è chiesto come mai la stessa durezza non venga usata verso gli Stati Uniti, quando un presidente americano arriva a teorizzare deportazioni di massa di palestinesi o ambizioni di controllo su Groenlandia, Panama, Canada. Il suo, ha precisato, non è un atto di difesa di Vladimir Putin, ma un atto d’accusa verso un’Europa che, a suo dire, ha abdicato al proprio ruolo per inseguire la logica del riarmo e di una guerra «fino alla vittoria», mentre l’Ucraina arretra, gli USA non vogliono più finanziare un buco nero da decine di miliardi e il welfare europeo paga il conto.

La militarizzazione, però, non è soltanto un affare dell’est. Con Luca Oliveri lo sguardo è andato alla Germania, dove il dibattito sul servizio militare sta infiammando politica e opinione pubblica. Secondo quanto riferito da Oliveri, il cancelliere Friedrich Merz vuole fare della Bundeswehr l’esercito meglio equipaggiato dell’Unione Europea. Un rapporto della NATO indica come obiettivo 260.000 soldati attivi e 460.000 tra truppa e riservisti entro il 2030. Oggi i militari tedeschi sono circa 183.000.

Il ministro della Difesa Boris Pistorius ha proposto un modello “misto”: dichiarazioni obbligatorie di disponibilità per i nati dal 2008, visite mediche, incentivi economici e professionali – come il cofinanziamento delle patenti di guida. Se i volontari non basteranno, la leva obbligatoria tornerà. Nel dibattito è spuntata perfino l’ipotesi di una “lotteria”: non tutti i diciottenni, ma un campione estratto in base alle esigenze militari del momento. Gli esperti parlano di “servizio selettivo” e prevedono già ricorsi e tensioni costituzionali.

Sul tavolo ci sono anche i soldi. Il bilancio per la difesa tedesca è salito a oltre 62 miliardi di euro, con un piano che punta a raggiungere quasi 153 miliardi nel 2029. La riconversione industriale completa il quadro: si parla – per ora solo come ipotesi – di trasformare lo stabilimento Volkswagen di Osnabrück, oggi in crisi, in un impianto per la produzione di mezzi militari. Il sindacalista di IG Metall, Stephan Soldanski, ha provato a rassicurare, ma il segnale politico è apparso chiaro: dove non si producono più auto civili, si comincia a parlare di carri armati.

Le storie individuali raccolte da Oliveri hanno dato un volto a queste scelte. Alessandro Bassetti, italiano in Germania, guarda al figlio ancora bambino e si chiede che cosa significhi crescere con la prospettiva concreta di una chiamata alle armi. Federico Bombelli, invece, ha un atteggiamento più favorevole, forse segnato dai racconti del padre Renato, che il servizio militare in Italia l’ha fatto a fine anni Settanta, tra tensioni e paure, ma anche con esperienze di socialità e comunità che ancora oggi ricorda.

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