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Gaza chiama, Roma risponde: più di un milione in piazza e... ci siamo anche noi (le foto)

La Capitale paralizzata dal corteo pro Palestina del 4 ottobre. Dalla Piramide a San Giovanni, un fiume umano attraversa la città chiedendo la fine del genocidio. Tensione nel finale, scontri isolati e polemiche per le scritte su Giovanni Paolo II

C’è un momento, nel primo pomeriggio, in cui Roma cambia pelle. I clacson tacciono, i motorini si fermano, le sirene restano sospese nel traffico bloccato. Il cielo è limpido, quasi beffardamente sereno, e sopra Porta San Paolo sventolano le prime bandiere palestinesi. In lontananza si sente un tamburo, poi un coro, poi mille voci che diventano una sola: “Gaza libera, Palestina libera!”. È in quell’istante che la città smette di essere la Roma di sempre e diventa qualcos’altro: una piazza infinita, un respiro collettivo, un grido di dolore e di dignità che attraversa l’Aventino e si riversa nel cuore antico della Capitale.

Le persone arrivano da ogni parte. Studenti con zaini scoloriti, madri con i bambini sulle spalle, uomini con il volto segnato dal sole, suore, attivisti, migranti, vecchi pacifisti che non hanno mai smesso di scendere in strada. Si parla in arabo, in italiano, in inglese, ma il linguaggio è lo stesso: quello dei corpi, delle mani alzate, degli occhi lucidi. Il corteo parte piano, come un fiume che si sveglia. In testa, una bandiera palestinese lunga decine di metri srotolata tra le braccia di venti ragazzi. Dietro, i tamburi battono un ritmo costante, le voci si alzano, i megafoni gracchiano. “Stop al genocidio!” urla un ragazzo. La folla risponde in un’onda che risuona tra i palazzi come un eco antico, come una preghiera laica.

Gli organizzatori parlano di un milione di partecipanti. La polizia abbassa il numero, lo ridimensiona. Ma chi è lì, oggi, sa che i numeri non bastano a raccontare quello che accade. Da Porta San Paolo fino al Colosseo, da piazza Albania a San Giovanni, Roma è una scia di bandiere, di passi, di voci. Non c’è un leader, non c’è una regia: solo un popolo che si muove. “Non c’è pace senza giustizia”, si legge su uno striscione; “Gaza chiama, Roma risponde”, su un altro. Ogni cartello racconta una storia, ogni volto porta un dolore.

Il sole batte forte sul selciato, il traffico è scomparso. Gli autobus sono fermi, le fermate della metro chiuse, i bus deviati. Le strade si riempiono di persone che non si conoscono ma si salutano, si sorridono, si passano bottigliette d’acqua come compagni di viaggio. Un ragazzo di vent’anni, con la kefiah al collo, cammina accanto a una signora di settanta, con un rosario tra le dita. “Non sono musulmana”, dice lei, “ma sono madre. E quando muoiono i bambini, non c’è religione che tenga”.

Sui balconi di via Labicana sventolano lenzuola bianche, qualcuno appende un drappo verde, qualcuno lancia petali. Lungo via Merulana, una famiglia affacciata al quarto piano batte le mani e applaude i manifestanti che sfilano in silenzio per alcuni minuti, in ricordo delle vittime civili di Gaza. L’applauso si trasforma in un battito ritmico, poi in un coro. Un signore con un cartello scrive in stampatello: “Il silenzio è complicità”.

Roma, intanto, osserva e trattiene il respiro. Le forze dell’ordine presidiano ogni angolo. Gli agenti, in assetto antisommossa, si muovono come un esercito di statue. Il Viminale teme infiltrazioni, e in mattinata sono stati sequestrati mazze e caschi da alcuni pullman provenienti da fuori regione. Ma per ore non succede nulla. Nessuna tensione, nessun disordine. Solo la città che marcia.

A Piazza di Porta Capena, una bambina sulle spalle del padre agita una piccola bandiera palestinese di carta. Accanto a lei un ragazzo distribuisce volantini con scritto: “Pace non è parola, è azione”. La marcia continua, lenta, potente. Quando la testa del corteo arriva al Colosseo, la coda è ancora a Porta San Paolo. Dal cielo, Roma sembra una cicatrice viva che attraversa il suo stesso corpo.

Nel pomeriggio compaiono i primi politici. Una delegazione del Movimento 5 Stelle, con la senatrice Sabrina Ricciardi, si mescola tra la folla: “Siamo qui per chiedere la fine delle ostilità, per dire che il popolo palestinese non è solo”. Poco più in là, Riccardo Magi di +Europa lancia un messaggio chiaro: “La premier Meloni smetta di fare vittimismo politico e ascolti la piazza. La pace si costruisce ascoltando, non accusando”. Le parole si perdono tra gli slogan, ma restano sospese nell’aria come un contrappunto politico in una giornata che ha il sapore dell’insurrezione civile.

Alle cinque il sole comincia a calare, tingendo di oro le cupole. Piazza San Giovanni è già piena, ma la marcia continua ad affluire. Una donna anziana siede sul marciapiede, stanca, con la kefiah sulle spalle. Sorride. “È tanto che non vedevo una Roma così viva”, dice. E poi aggiunge piano: “Peccato che serva la guerra per farci svegliare”.

Verso le sei e mezza, qualcosa cambia. La linea del corteo si spezza. All’altezza di Santa Maria Maggiore, un gruppo di manifestanti tenta di forzare un cordone di polizia. Volano bottiglie, poi qualche pietra. Gli agenti rispondono con lacrimogeni e idranti. Il fumo bianco si mescola ai colori delle bandiere. Una ragazza cade a terra, respirando a fatica. I volontari della Croce Rossa la portano via in barella, tra applausi e urla. Più tardi, in piazza dei Cinquecento, un’auto della polizia viene colpita e prende fuoco. Scene isolate, ma bastano a rompere la magia di una giornata che fino a quel momento era stata solo voce e respiro.

Le agenzie parlano di alcuni fermi e di diverse identificazioni. La Prefettura rassicura: “Nessun ferito grave, nessuna escalation”. Ma sui social scorrono le immagini dei lacrimogeni, del fumo, dei caschi lucidi sotto i lampioni.

Poco dopo, la notizia che fa il giro delle redazioni: la statua di Giovanni Paolo II davanti alla Stazione Termini è stata imbrattata con scritte rosse, insulti e simboli di falce e martello. Un gesto che sposta l’attenzione. Dalla piazza alla polemica. Il governo reagisce subito. Giorgia Meloni parla di “atto vergognoso e oltraggioso verso la memoria del Papa”. Il ministro dell’Interno parla di “violenza travestita da protesta”. Ma dal fronte opposto, Lorenzo Guerini del Pd chiede equilibrio: “Non confondiamo la rabbia di pochi con la voce di centinaia di migliaia di cittadini pacifici”.

Intanto, in via Merulana, il corteo defluisce. È ormai buio. Qualcuno canta, qualcuno piange. I tamburi continuano a battere, come un cuore ostinato che non vuole fermarsi. I rifiuti, le bottiglie vuote, le bandiere piegate a terra: restano i segni di un giorno che sarà difficile dimenticare.

Una ragazza, avvolta nella kefiah, siede sui gradini di San Giovanni con il volto rigato dal trucco e dalla stanchezza. Tiene tra le mani un cartello stropicciato: “Non abbiamo più parole, ma continuiamo a gridare”. Accanto a lei, un ragazzo fuma in silenzio. Sembra incredulo. “Roma così non l’avevo mai vista”, dice piano. “È come se oggi avesse parlato il mondo intero, usando la nostra voce”.

E in effetti, per un giorno, Roma ha parlato con mille accenti e un solo messaggio: che la pace non è una bandiera, ma una necessità. Ha gridato per chi non può gridare, ha camminato per chi non può più camminare, ha ricordato che l’indifferenza è il primo passo verso la complicità.

Quando la notte scende, la città si svuota lentamente. Le pattuglie restano ai crocevia, i lampioni illuminano le strade ancora bagnate dagli idranti. Un’aria di malinconia si mescola all’odore del fumo e della pioggia. Roma torna sé stessa, ma non del tutto. Qualcosa è cambiato. Forse per sempre.

Perché certe giornate non si dimenticano. E quella del 4 ottobre 2025 resterà una di quelle in cui una città intera, tra rabbia e speranza, ha deciso di non voltarsi più dall’altra parte.

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