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C'è un posto, in Canavese, dove il piemontese non muore. Ecco dove e perché

Dal 2013 un gruppo di volontari tiene viva una lingua che molti danno per spacciata

Il piemontese, per qualcuno, è una lingua morta. Per altri, un gergo da "paesino". Eppure, a Castellamonte, c’è chi da dodici anni resiste all’oblio. Non per nostalgia, ma per memoria. Perché una lingua che scompare non muore in silenzio: si porta via pezzi di storia, di cultura, di identità.

Il gruppo si chiama “Ij Pignaté ‘d Castlamont”. Nome ironico, rustico, popolare. Ma dietro la battuta da cortile c’è un lavoro serio, nato nel 2013 “quasi per scherzo” e diventato oggi una piccola istituzione. All’inizio un corso per imparare a leggere e scrivere il piemontese. Adesso una scuola, una comunità, un concorso che ha tagliato la decima edizione.

Il merito non è solo dei volontari. Va detto: se il progetto ha resistito, è anche grazie alle amministrazioni comunali che in questi dodici anni hanno concesso spazi gratuiti e sostegno. Una rarità, in tempi di bilanci asciutti e promesse evaporate. Qui, invece, l’impegno c’è stato e continua.

Sabato 27 settembre Castellamonte ha celebrato la premiazione del concorso annuale di prosa e poesia piemontese. Alla presenza del sindaco Pasquale Mazza e dell’assessore alla cultura Claudio Bethaz, la lingua ha ripreso fiato. Non in aula, non su un manuale: sul palco. Dove parole, storie e versi hanno dimostrato che il piemontese non è un reperto, ma materia viva.

Il primo premio di poesia è andato a Maria Augusta Giovannini, di Ivrea, con “Lijura” – Legame. Una poetessa di lungo corso, che nei concorsi piemontesi è quasi di casa. Dietro di lei, Vittorio Gullino di Racconigi con “L’ultima reusa dl’otonn” e Gabriele Gariglio di Santena con “Fàula”. Sul fronte della prosa, primo posto a Silvana Sapino di Torre Canavese con “13.08.1944”, il racconto di un eccidio nazista in un paesino canavesano. Un testo che riporta la lingua al suo compito più alto: custodire la memoria.

Il secondo premio è andato a Maria Antonietta Valenza con “Na vita për j’àutri” – la storia di una donna che sacrifica se stessa per gli altri, senza mai raccogliere il frutto dei suoi sogni. Poi una terna di ex aequo al terzo posto: Maria Bosio con “Ël porilo ross”, Rita Turino con “Na telefonada amusanta” e ancora Gariglio con “Un San Lorens da seugn”.

C’è un dettaglio che fa riflettere. A riempire la sala non c’erano solo i premiati e le autorità, ma anche gli allievi dell’Unitre di Caluso. Tutti studenti di Vittoria Minetti, l’insegnante che ha reso il piemontese non un passatempo per nostalgici, ma una lingua da studiare, leggere, usare. Una scuola che continua a formare nuovi parlanti, in un contesto dove il piemontese lo si sente sempre meno, persino nei mercati o nelle cascine.

E allora la domanda si impone: quanto vale una lingua? Vale quanto un monumento? Quanto una biblioteca? O meno, perché “tanto ormai non la parla più nessuno”? La verità è che le lingue muoiono quando smettono di essere necessarie.

Ma se c’è chi continua a scrivere poesie, racconti, testi in piemontese, forse la necessità resiste. Forse la lingua serve ancora, almeno per dare voce a storie che in italiano perderebbero sapore.

Il pranzo finale, consumato all’Antica Trattoria dei Ciapèj, è sembrato un rito collettivo più che una chiusura conviviale. Come dire: ci siamo ancora. Mentre fuori il mondo corre, dentro quelle mura si è fermato un tempo diverso, fatto di parole che altrimenti rischierebbero di sparire.

Alla fine, resta un paradosso: in un’epoca che proclama la “valorizzazione delle radici” a ogni pie’ sospinto, il piemontese sopravvive non per decreto o per grandi piani culturali, ma per ostinazione. Quella di pochi, che hanno deciso di difendere un patrimonio con le armi della poesia, della memoria, della tenacia.

Il futuro non lo sappiamo. Forse tra vent’anni il piemontese sarà ridotto a curiosità da museo. Forse no. Ma oggi, a Castellamonte, una cosa è chiara: finché qualcuno lo parla, lo scrive, lo insegna, il piemontese è vivo.

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