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181 settimane e un solo grido: Fermate la guerra!

Dalla denuncia di Pierangelo Monti sui conflitti dimenticati al grido dei giornalisti palestinesi, dalla poesia struggente di Nema Hassan alla maratona di preghiera di Zuppi: un presidio lungo e intenso, sotto il sole d’agosto, per ribadire che la pace è l’unica strada possibile

C’era anche lui, il giovane Fabio De Fazio, al 181° presidio per la pace tenutosi oggi a Ivrea. Con la chitarra a tracollo ha regalato due brani scritti di suo pugno, “C’era una volta un soldato” e “Sopra Gaza”. Canzoni che raccontano di guerre e di ferite mai rimarginate, che parlano di soldati, di vittime, di popoli schiacciati.

È stato applaudito, ma soprattutto ascoltato: perché la musica ha il potere di entrare nell’anima, di dire ciò che spesso le parole non riescono a esprimere.

Sotto un caldo afoso, che appesantiva l’aria e le persone in piazza, il presidio ha preso forma, come ogni sabato, con la sua miscela di denuncia, memoria e speranza.

A dare il via agli interventi è stato, come sempre, Pierangelo Monti, che non ha usato mezzi termini.

“Siamo qui per ripetere ancora una volta: cessate il fuoco! Basta guerre. Fermate gli eserciti! Fate la pace”.

Ma mentre questa piazza continua a chiedere un mondo senza conflitti, la realtà dice altro. Bombe continuano a cadere in Ucraina, la Palestina continua a essere devastata, il numero delle vittime civili cresce senza tregua.

Monti ha ricordato l’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin, sottolineando la sua natura ambigua.

“Un incontro tra potenti interessati ai loro affari non poteva certo portare la pace e il disarmo”, ha stigmatizzato. Tuttavia, in quel gesto diplomatico c’è almeno un fatto positivo: i due leader delle nazioni più armate al mondo, dotate di arsenali nucleari, si sono parlati. Una fiammella che allontana lo spettro di una guerra atomica, ma ben lontana dall’essere una vera soluzione.

Il suo discorso si è poi soffermato sulle quattro “bombe” che minacciano il pianeta, come ha scritto padre Alex Zanotelli: la bomba militare, che si manifesta oggi nelle guerre sanguinose e nei genocidi; la bomba climatica, che esplode in catastrofi ambientali sempre più frequenti; la bomba dell’ingiustizia sociale, che condanna miliardi di persone alla povertà mentre l’1% della popolazione mondiale accumula ricchezze smisurate; e la bomba della discriminazione, che colpisce donne, minoranze e “diversi” ovunque. Quattro mine pronte a esplodere, se non cambiamo rotta.

Monti ha infine puntato il dito su un conflitto dimenticato: il Sudan. Ha citato un rapporto pubblicato dieci giorni fa che racconta di oltre 1.500 morti in un solo attacco al campo profughi di Zamzam, avvenuto dall’11 al 14 aprile scorso. Un massacro che ha visto stupri, incendi, rapimenti e marce forzate di 400.000 persone, molte delle quali sono morte per fame e sete. Una catastrofe umanitaria che non trova spazio nei notiziari internazionali, segno di un mondo che seleziona i propri drammi in base agli interessi.

La conclusione del suo intervento è stata affidata ai dati di Amnesty International, che nel rapporto 2024 parla di un mondo “sull’orlo dell’abisso”. Guerre sempre più violente, violazioni sistematiche del diritto internazionale, milioni di sfollati. I paesi citati sono tanti: Ucraina, Russia, Israele, Palestina, ma anche Burkina Faso, Mozambico, Myanmar, Somalia, Yemen. Il quadro è cupo: il 2024 è stato un anno di repressione e persecuzione, con governi che hanno usato detenzioni arbitrarie, torture e accuse infondate per mettere a tacere chiunque alzasse la voce.

Mariella Ottino, Cristina Capello e Rosa Tadiello, hanno dato lettura di tre testi inviati da Letizia Carluccio. Sui giornalisti uccisi a Gaza e in Palestina, sull'appello dei giornalisti palestinesi (“Noi siamo tutti in pericolo, eppure continueremo a raccontare”.  “Se smettiamo, chi racconterà le nostre storie? Chi documenterà i crimini?”), sulla testimonianza della poetessa Nema Hassan, madre di sette figli che ha descritto la sua vita a Gaza come una continua lotta per sopravvivere: case crollate, notti passate abbracciata ai figli per proteggerli dalle esplosioni, file interminabili per un po’ di acqua o un pezzo di pane.

“Ogni parola che scrivo è un ritratto mascherato di Gaza. Non siamo numeri, ma sappiamo contare i nostri morti. Uno a uno”.

E per la cronaca, sono 250 i giornalisti uccisi dall0inizio del conflitto. Gli ultimi sei sono caduti in un raid israeliano mentre si trovavano in una tenda davanti all’ospedale al-Shifa di Gaza City.  Tra loro Anas Al Sharif, volto noto di Al Jazeera, che aveva documentato senza paura i massacri e la fame usata come arma di guerra. Un testimone scomodo, eliminato insieme ad altri colleghi per cancellare le prove dei crimini.

E se Aldo Zanetto si è concentrato sulle mine antiuomo, ricordando ciò che vide anni fa in Cambogia e che oggi rischia di ripetersi in Ucraina (locali pieni di persone mutilate, vite spezzate da ordigni che costano poco ma devastano per sempre), Livio Obert ha raccontato la maratona di preghiera organizzata il 14 agosto a Monte Sole dal cardinale Matteo Zuppi e dalla Piccola Famiglia dell’Annunziata.

Dodicimila nomi di bambini, vittime della guerra a Gaza e in Israele, letti uno dopo l’altro, senza distinzioni. Dodicimila identità restituite, perché nessuno sia ridotto a numero.

Obert ha ricordato anche la cornice simbolica della chiesa di Santa Maria Assunta di Casaglia, teatro dell’eccidio nazista del 1944: un luogo che ancora oggi grida contro la barbarie. Le parole di Dostoevskij, citate da Zuppi – “nessuna guerra potrà mai valere una sola lacrima di bambino” – hanno risuonato fortissime, riportando tutti all’essenziale: la vita dei più piccoli come misura del nostro fallimento o della nostra speranza.

In chiusura Cadigia Perini ha portato in piazza i dati dell’ONU: dal 15 agosto sono 1.760 i palestinesi uccisi mentre cercavano aiuti umanitari. Ha letto l’intervista a Gershon Baskin, negoziatore israeliano, che ha denunciato la guerra di Netanyahu come un conflitto politico, volto a mantenere il potere. “A Gaza è in corso un genocidio”, ha detto, ricordando che la stessa parola non è questione semantica, ma giuridica. Definire genocidio significa obbligare gli Stati a intervenire. Ma mentre contro la Russia sono stati varati 18 pacchetti di sanzioni, contro Israele nulla. “Un doppio standard che i cittadini europei non possono accettare”, ha aggiunto Perini.

Perini ha anche mandato un saluto di pronta guarigione a Rosanna Barzan, assente per un infortunio ma presente con il pensiero e con il cuore.

Ivrea, i custodi della pace: 181 sabati di coraggio e resilienza

Ci sono città che si piegano al silenzio, alla rassegnazione, alla distrazione. E poi c’è Ivrea, che da 181 settimane manda un segnale al mondo intero: qui non ci si stanca di chiedere pace. Ogni sabato, con la pioggia o sotto il sole, con il vento o nella calura afosa di agosto, un gruppo di cittadini si ritrova in piazza. A volte sono in quattro gatti, altre volte in centinaia. Ma la misura non è nei numeri: è nella coerenza, nella resilienza, nella profondità delle parole che da quasi due anni risuonano come un mantra necessario.

È un gesto straordinario nella sua semplicità. Si incontrano, leggono, denunciano, cantano, recitano poesie, danno voce a popoli lontani e dimenticati. E ogni volta, in quelle piazze che altrove restano mute, qui a Ivrea si rinnova un rito civile, che è insieme memoria e futuro. Un presidio che non ha eguali in Italia, e che rende onore a una comunità che non vuole smettere di credere nella forza della pace.

Chi pensa che sia un atto insignificante, che non serva a nulla, sbaglia di grosso. Queste persone tengono accesa una fiaccola che altrimenti si spegnerebbe. Custodiscono uno spazio di coscienza collettiva che altrove è stato eroso dall’indifferenza. Sono, in fondo, i veri eredi di una tradizione che a Ivrea ha radici profonde: quella di Adriano Olivetti, l’uomo che sognava una comunità fondata sulla giustizia, sulla cultura, sulla responsabilità. Il seme piantato da Olivetti continua a germogliare in gesti come questo, piccoli eppure giganteschi, capaci di ricordarci che la politica e la vita civile non possono ridursi a interessi e calcoli, ma devono tornare ad avere un’anima.

Ecco cos’è il presidio eporediese per la pace: un atto di resistenza civile e spirituale. Un appuntamento che ogni sabato rinnova la convinzione che la guerra non sia mai inevitabile, che i popoli non debbano rassegnarsi a subire la violenza dei potenti, che la pace sia un dovere prima ancora che un sogno.

Questa è Ivrea. Una città che, nonostante le ferite del passato e le contraddizioni del presente, riesce ancora a sorprendere. Una città che non tace, che non si piega, che da 181 settimane dimostra che il seme di Adriano Olivetti produce ancora frutti buoni: gesti semplici e insieme grandissimi, capaci di illuminare un Paese intero

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