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Carnevale di Ivrea
24 Gennaio 2025 - 19:24
Quattro tonnellate di striscione srotolato con cura e orgoglio dietro la fontana di Camillo, simbolo di un passato che continua a pulsare nelle vene del Carnevale d’Ivrea. Quando lo vedi per la prima volta, resti inebriato: un colpo d’occhio di rosso e blu, il segno inconfondibile di una tradizione che ha segnato generazioni. Questo monumentale striscione appartiene all'Asso di Picche, la più antica squadra della battaglia delle arance di Ivrea, un nome che rievoca non solo storia, ma anche un’identità profonda.
È il 1947 quando, per la prima volta nella storia del Carnevale, un gruppo di aranceri decide di fare un passo rivoluzionario: unirsi sotto un unico nome, adottare lo stesso simbolo, indossare una divisa comune e scegliere una piazza dove sfidare i carri. E così nasce la prima squadra: l’Asso di Picche. All’inizio non c’erano casacche: gli aranceri indossavano tute da lavoro, un elemento che rifletteva la loro provenienza, spesso legata all’Olivetti. Anche il loro stemma ha radici nell’azienda che ha segnato un’epoca: lo disegnò Gino Pasteris, un talento dell’Olivetti, nel 1947. E il nome? Arrivò per caso, durante una partita a carte: qualcuno gridò “Picche!” e così fu deciso. Quanto ai colori, il rosso e il blu si ispirano a quelli del rione San Maurizio, che ancora oggi rappresenta un forte legame territoriale.
Ma la battaglia delle arance non inizia con i Picche. Si tirava già da almeno trent’anni, in modo disorganizzato, spesso dalle finestre o dai balconi. Non esistevano zone franche: le arance si compravano alle bancarelle sparse per la città e si scagliavano senza esclusione di colpi. Una pratica tanto affascinante quanto violenta, osteggiata persino dal Comune. Gli scontri erano diretti: se si aveva un litigio con un vicino, si aspettava il Carnevale per regolare i conti a suon di agrumi. Intanto, i figuranti sui carri indossavano maschere da scherma rinforzate, ma spesso nemmeno quelle bastavano: le protezioni si sfondavano sotto la furia degli aranci.
Quando nacque l’Asso di Picche, le autorità non ne furono entusiaste. La paura di disordini portò la polizia a convocare tutti gli iscritti in commissariato per schedarli. Eppure, al termine del Carnevale, avvenne l’inaspettato: non solo non ci furono problemi, ma i Picche vennero addirittura premiati per lo spirito di amicizia e allegria con cui avevano combattuto. Quello spirito, da allora, è diventato il modello per tutte le squadre che seguirono.
I primi aranceri dell’Asso di Picche erano uomini robusti e determinati. Partivano da Porta Vercelli, risalivano Via Palestro e Via Arduino, e arrivavano fino a Porta Torino e alla stazione dei treni. Ma per entrare nella squadra bisognava dimostrare di essere all’altezza. Non c’era spazio per i deboli: durante l’anno ci si allenava sulle rive della Dora, al “Ghiaio”, lanciando sassi. Solo chi riusciva a superare una certa distanza con il proprio tiro poteva entrare nei ranghi dei Picche.
Nel corso degli anni, la divisa ha subito molte trasformazioni. Nel 1955 venne introdotta quella color rosso ispirata all’abbigliamento dei marinai, completata da pantaloni e foulard scozzesi. Negli anni Sessanta, i pantaloni cambiarono: prima con un motivo arlecchino, poi interamente rossi e blu, come quelli che si usano ancora oggi. Furono aggiunti campanelli, merletti a ornare maniche e bluse, dando alla squadra un aspetto unico e riconoscibile.
Tra i successi più memorabili dell’Asso di Picche c’è il 1982, un anno che è rimasto scolpito nella memoria della squadra e della città. Quell’anno, i Picche trionfarono sia nella battaglia delle arance sia nel Palio degli aranceri, un doppio riconoscimento che consacrò il loro valore.
Oggi, sotto la guida di Corrado Bonesoli, la squadra conta su un migliaio di iscritti. Mille persone accomunate dalla stessa passione, dallo stesso spirito di amicizia e dalla stessa volontà di tenere viva una tradizione che è molto più di un semplice gioco. L’Asso di Picche è il cuore pulsante del Carnevale d’Ivrea, un simbolo che unisce passato e presente in una celebrazione che non smette mai di emozionare.
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