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Covid-19. Tra dati ufficiali senza senso e la necessità di ricominciare

Da quasi due mesi ogni giorno, alle 18, la Protezione Civile in conferenza stampa snocciola i dati dell'evoluzione del Coronavirus in Italia, e circa un'ora più tardi la Regione Piemonte invia alle redazioni i dati aggregati su contagi, guarigioni, ospedalizzazioni e decessi nelle province piemontesi. Ma che dati sono? I “contagiati” non sono i contagiati. È ormai acclarato che il numero dei contagiati in Italia sia almeno dieci volte più alto di quello che viene comunicato ufficialmente; l'ha detto persino il capo della Protezione Civile, Borrelli: proprio quello che quotidianamente parla in conferenza stampa. Calcolando a ritroso a partire dal nostro assurdo tasso di letalità (non è possibile che in Italia il rapporto decessi/contagiati sia il doppio o il triplo degli altri Paesi europei) si arriva a una stima di qualche milione di contagiati. E siccome i criteri con cui è composto il dato dei contagiati cambiano ogni giorno - ogni Regione decide per conto suo a chi fare i tamponi e quanti farne, spesso cambiando linea col passare delle settimane - anche l’evoluzione del dato non ha alcun valore. Poi c'è il “caso Piemonte”, dove - aggiungendo confusione a confusione - prima i contagiati venivano conteggiati per residenza e poi, da un giorno all'altro, per domicilio. I “morti” non sono i morti. È ormai acclarato che negli ultimi due mesi sono morte migliaia di persone - nelle case di riposo, come sta tardivamente emergendo in questi giorni, ma anche nelle case private, da soli o in famiglia - che avevano contratto il Coronavirus ma che non sono mai state testate, e quindi non rientrano nei casi ufficiali. Lo si evince dai dati dei decessi all'anagrafe, che tra la seconda metà di marzo e aprile sono schizzati in alto, e dall'iperattività delle imprese di onoranze funebri, con migliaia di esequie sbrigative e solitarie. I “guariti” non sono guariti. È ormai acclarato che il numero dei “guariti” - che in modo un po’ paternalista ci viene annunciato ogni giorno all’inizio della conferenza stampa, per convincerci che «andiamo meglio» - comprende anche tantissime persone che non sono guarite ma sono solo state dimesse dall’ospedale, benché ancora sintomatiche e positive al coronavirus, semplicemente per far posto a pazienti in condizioni peggiori. Dagli ospedali raccontano che in molti casi vengono dimesse persone che in condizioni normali sarebbero rimaste ricoverate: persone malate e contagiose, magari mandate in strutture dove hanno contagiato altri. I dimessi che non sono guariti non sono pochi: sono circa la metà del totale dei “guariti”. E poi ci sono le decine di migliaia di guariti a cui non era mai stato fatto il test, e che quindi non sono mai entrati nel novero dei casi registrati. I “tamponi” non sono le persone che sono state sottoposte a tampone. È ormai acclarato che il dato comprende anche i due tamponi di controllo che vengono fatti per confermare la guarigione dei pazienti; nessuno sa quante siano le persone sottoposte a tampone, almeno ufficialmente. Il dato quotidiano dei “tamponi” non ci dice nemmeno quanti tamponi sono stati fatti nelle 24 ore precedenti. In Lombardia il ritardo medio tra il risultato del tampone e la sua inclusione tra i dati ufficiali è di 3 giorni, e può arrivare fino a 10. Il lunedì, poi, ci sono pochissimi dati sui tamponi fatti nei giorni precedenti, perché il sabato e la domenica ne vengono processati meno: quindi non ha senso guardare i numeri giorno per giorno. Questi sono i dati a cui è appeso il nostro destino: dati che non avevano senso prima e non hanno senso adesso. L'unico forse un po' attendibile è quello dei ricoveri in ospedale e nei reparti di terapia intensiva: quello, per fortuna, lentamente sta scendendo. Medici e infermieri dagli ospedali dicono che da qualche giorno le cose vanno un po' meglio, che diminuisce il numero dei ricoverati in terapia intensiva (ma va anche detto che, per settimane, molte persone che avrebbero avuto bisogno di un ricovero in terapia intensiva non hanno trovato posto, e che il numero di letti in terapia intensiva in queste settimane è cresciuto moltissimo), che ci sono sempre meno persone che si presentano al pronto soccorso, che non hanno più i pazienti stipati nei corridoi. Quindi l'unica cosa che possiamo dire è che rispetto a qualche settimana fa ci sono meno contagiati in ospedale, e - tra questi - meno che necessitano di essere ventilati o intubati. Il problema di fondo è che lo scopo dei dati, in teoria, sarebbe quello di “darci una misura”, bella o brutta che sia: misurare quello che abbiamo intorno. E sulla base di quella misura prendere - come sta accadendo - decisioni politiche, economiche, sanitarie eccezionali. Ebbene: quando saremo in grado di dire che queste restrizioni non servono più, se non abbiamo idea di dove e quanto sia ancora diffuso il virus? Dovessimo scegliere in futuro di adottare delle soluzioni diverse, come potremo misurare la loro efficacia in confronto alle attuali?

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Per convincerci a “restare a casa”, da ormai quasi due mesi, le autorità e i media (anche con continui interventi dei “vip” in televisione) hanno fatto passare il messaggio che il distanziamento sociale servisse a “sconfiggere il virus”: cari italiani, ce ne stiamo tutti a casa e tra qualche settimana usciremo e ci riabbracceremo. Purtroppo non è così: la “quarantena” (ormai quasi “sessantena”) non è servita a sconfiggere il virus: per quello aspettiamo qualche terapia risolutiva, o meglio ancora un vaccino, che però non sarà pronto in tempi brevi. Isolarci e stare a casa - magari lontani dagli affetti più cari, e preoccupati per la devastazione economica personale e collettiva - è servito a diluirne la diffusione: a prendere tempo e a salvare vite - non intasando gli ospedali in centomila al giorno, perché in centomila al giorno non riuscirebbero a curarci - intanto che cerchiamo di inventarci un modo per ricominciare una vita con il virus. La cosiddetta “fase due” di cui tanto si parla in questi giorni - e di cui si sta occupando un “comitato di esperti” nominato dal Governo, anche se ogni Regione tenta di andare per conto suo... - è proprio questo: come organizzarci la vita (il lavoro, la scuola, i trasporti, i rapporti sociali, ecc.) nei prossimi mesi - o anni: sta girando uno studio dell'Università di Harvard secondo cui non ne usciremo prima del 2022 -, essendo ormai consapevoli che almeno per un po' non sarà come quella di prima.
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