C’era una volta la Olivetti di Adriano. La fabbrica “più avanti di tutte le altre” che chiudeva in luglio, invece che in agosto, in modo che gli operai (più di 40 mila negli anni ‘90) potessero lavorare nei campi. Era l’azienda sociale, la Csr (Corporate social responsibility) che pensava all’uomo e nello stesso tempo macinava utili con le "Macchine sapienti", le mitiche Divisumma, cioè le prime calcolatrice scriventi prodotte al mondo. Che forza che erano! Si vendevano a dieci volte il costo di produzione, con un prezzo (325mila lire) di poco inferiore a quello della Fiat 500 (465mila lire). Altri tempi. Oggi i conti non tornano neanche a farli su un foglio di excel e più di 400 dei 550 lavoratori, gli ultimi rimasti, vivono la propria esistenze con l’incubo del contratto di solidarietà e grande preoccupazione per il futuro. Sul calendario hanno cerchiato in rosso una data: il 10 settembre. E’ il giorno in cui le organizzazioni sindacali si siederanno intorno ad un tavolo per discutere con il management e fors’anche con il nuovo amministratore delegato Cinzia Sternini. Un’occasione per capire - sempre che ci sia qualcosa da capire - il piano industriale di Telecom, proprietaria della casa eporediese al 100 per cento. In verità la risposta già c’è, con la produzione tutta impiantata in Asia e neanche più un bullone o una vitina lavorata sotto la Serra... C’era una volta Adriano Olivetti, la forza di un sogno, la forza di un marchio, simbolo di un’italianità, ancora oggi conosciuta in tutto il mondo. Perchè il marchio non è acqua. E’ suggestione. E’ fascino. E’ storia della migliore industria manifatturiera del mondo. Vale per l’Olivetti come per l’Alfa Romeo, la Piaggio e - perchè no? - per la Romi di Pont, finita nel mirino delle multinazionali straniere, in un contesto di desertificazione nazionale che ha ormai raggiunto livelli da tragedia greca. Arrivano cinesi, giapponesi, brasiliani, tedeschi e arabi, si comprano le aziende, licenziano gli italiani e si portano via i marchi per continuare a produrre altrove. Ed era - ed è - del tutto evidente che i marchi erano, anzi sono, l’unica cosa che ci rimane. E ci sarebbe da darsi delle mazzate in testa o sugli zebedei per non essere stati capaci, in tutti questi anni, di far ripartire le industrie come ai tempi del miracolo economico. Colpa di chi? Beh. Di una classe politica tra le peggiori di tutti i tempi. E di un gruppo di mprenditori schizzofrenici e incapaci di guidare gli eventi. Ah, se si potesse tornare indietro con le lancette dell’orologio. Sembra assurdo ma tutti i mali del belpaese potrebbero risolversi in un nanosecondo, proprio a Ivrea, con la “Perottina”, un prodotto che avrebbe potuto esserci e c’è stato solo in parte ma che è la prova di quanta imbecillità abbia guidato i “grandi” dell’economia nazionale. La Perottina dal nome dell’ingegner Pier Giorgio Perotto (Torino 1930 – Genova 2002) , capo del “Progetto Olivetti Programma 101”, è stata il primo prototipo mai realizzato di personal computer, guarda un po’ prima di windows, di apple, di samsung. Presentato alla fiera di New York del 1965 e venduto nello stesso anno in 44mila esemplari. Numeri da urlo, ma insufficienti secondo Roberto Olivetti, che aveva assunto la guida dell’azienda dopo il decesso del padre Adriano avvenuto 5 anni prima. Si consultò con i vertici della finanza di allora, con Vittorio Valletta, presidente di Fiat, Enrico Cuccia, di Mediobanca, e l’onorevole Bruno Visentini, a quel tempo raccordo tra le imprese e la politica. Esaminarono l’oggetto. Confabularono un po’ e alla fine emisero la sentenza. Dissero che quello strano mix di macchina da scrivere e calcolatore da tavolo non avrebbe potuto diventare un prodotto di successo, né ora né mai; per cui era auspicabile che la Olivetti si concentrasse sul suo core business (l’arredo metallico d’ufficio) lasciando perdere le stranezze. Valletta rincarò la dose dichiarando che “la società è strutturalmente solida, ma sul suo futuro pende la minaccia di essersi inserita nel settore elettronico”. Sappiamo come sono andate effettivamente le cose. L’Olivetti cedette alla General Eletric l’intera divisione grandi elaboratori, prototipi compresi e incassò un milione di dollari come royalties per poter realizzare il proprio computer HP 9100. Insomma una grande occasione mancata. L’inizio della fine del sistema produttivo nazionale dai settori avanzati e ad alta intensità di capitale, anticamera della deindustrializzazione di un grande Paese manifatturiero. Di quell’Olivetti, della “forza di un sogno”, resterà ai posteri una miniserie televisiva (in programmazione già per quest’autunno su Rai 1, della Casanova Entertainment, diretta da Michele Soavi e interpretata da Luca Zingaretti e Stefania Rocca. Non racconterà le miserie di oggi, ma la storia dell'industriale che portò l'Italia all'avanguardia della tecnologia nel mondo. C’era una volta l’Olivetti di Adriano. E oggi?
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