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24 Novembre 2023 - 16:29
Dieci anni fa cambio lavoro, tra le varie persone che conosco nel nuovo ufficio incontro Andrea.
Per metà Italiano per metà Ungherese.
“Dai mi insegni qualcosa in Ungherese? Una parolaccia magari…”
Capita sempre così, chissà poi perché ci si fa sempre insegnare le parolacce prima di tutto il resto.
Passano veloci questi anni tra crisi professionali, risate, confidenze, amori, il Covid e perdite di persone care, ma Andrea di parole Ungheresi me ne insegna poche.
Nel contempo però diventa un amico, di quelli veri!
Sostiene che l’Ungherese sia una delle lingue più difficili al mondo come pronuncia e sintassi della frase, credo che abbia ragione.
Nel 2015 all’expo di Milano assaggio un dolce tipico Ungherese, il Kurtoskalacs, si tratta di cannoli di sfoglia lievitata, arrotolata a spirale intorno a un cilindro di legno, cotti sul fuoco e serviti tradizionalmente come street food in occasione di fiere e mercatini di Natale.
Nel raccontargli quanto mi siano piaciuti perdiamo una quindicina di minuti sulla pronuncia di questa parola e lui a un certo punto scoppia: “Non ce la farai mai Eli… ma .. kit érdekel”
“Scusa”
“Si... kit érdekel, chi se ne frega!”
E mi racconta un aneddoto telefonico divertentissimo tra lui e un suo cugino e sull’uso spasmodico di questa espressione durante un periodo della loro adolescenza.
Io memorizzo, ovvio è l’unica cosa che so di Ungherese.
Passano le giornate e una bella mattina lo trovo a capo chino a rimuginare su un problema lavorativo.
“Che c’è che non va Andrè?”
Non aspettava altro, due orecchie pronte ad ascoltare un problema che lo indisponeva.
Con questa domanda do il LA a una sequenza ritmata di lamentele, problemi, possibili soluzioni che però avrebbero causato probabilmente altri problemi.
Io tutta seria ascolto, in silenzio…..
È passata mezzora, lui è ancora concitato ma meno, io sempre silente. E finalmente il passo falso… “tu che dici Eli?”
“Kit érdekel” dico con tono trionfale, seria e facendo spallucce, con la bocca rivolta all’ingiù che nella mimica facciale rappresenta il disprezzo.
Si zittisce di colpo, gli occhi si fanno enormi, stupore, poi ride, anzi ridiamo complici.
“Brava mi hai proprio fregato, arguta! Pihentagyú”
Ed è così che mi da questa chicca, una parola intraducibile in italiano se non con la spiegazione stessa dell’aggettivo che raffigura.
Pihentagyú letteralmente significa “con un cervello rilassato”, in realtà si usa per descrivere persone argute, brillanti che in un attimo possono uscirsene con battute geniali o sofisticate o possibili soluzioni ad un problema.
Credo fortemente che questo aggettivo sia più adeguato se rivolto a lui, non a me … ma si sa… quando vai con stai con lo zoppo impari a zoppicare, no?
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