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Meloni alza il livello dello scontro sul caso Kirk: "Parole spaventose". Odifreddi replica: "Sono no gun, violenza chiama violenza"

Botta a risposta tra la premier e il matematico e saggista dopo l'omicidio negli Usa di Charlie Kirk

Un intervento duro, calibrato per entrare nel cuore del dibattito politico italiano e agganciarlo all’onda emotiva che arriva dagli Stati Uniti dopo l’omicidio di Charlie Kirk. Dal palco della festa nazionale dell’Udc a Roma, Giorgia Meloni definisce «spaventose» e «disumane» le parole del matematico Piergiorgio Odifreddi, pronunciate in tv a proposito dell’assassinio del leader conservatore americano: «Sparare a Martin Luther King e sparare a un rappresentante Maga non è la stessa cosa». Poi una serie di domande retoriche, che suonano come un atto d’accusa: «Intende che ci sono persone a cui è legittimo sparare in base alle loro idee? O a cui è meno grave sparare perché non le condividiamo?». Per la premier, quel ragionamento è il sintomo di un «clima insostenibile» e del «giustificazionismo» che – sostiene – una parte della sinistra continuerebbe a praticare.

Il contesto è noto: mercoledì 10 settembre, durante un evento alla Utah Valley University, Kirk è stato ucciso da un colpo di fucile esploso da distanza. Il sospetto, Tyler Robinson, 22 anni, è stato arrestato; la dinamica e il movente sono ancora al vaglio degli inquirenti. Il governatore dello Utah Spencer Cox ha chiarito che l’indagine prosegue e che l’indiziato «non collabora», mentre emergono elementi sul suo profilo e sull’eventuale radicalizzazione tramite comunità online; restano da definire le motivazioni precise.

Sulle parole di Odifreddi è arrivata la replica del diretto interessato, affidata all’Ansa e ripresa da diversi media: «Non condivido l’azione: io sono contro le armi, un no gun… Ho fatto un’affermazione semplicemente sensata», spiega. E ancora: «Gesù diceva: chi di spada ferisce di spada perisce. Io sono contrario alla premessa; se però uno usa quei mezzi, ci si può anche aspettare reazioni di questo genere. Non significa giustificare.» Per il professore, il paragone con Martin Luther King era volto a sottolineare la distanza tra chi predica la non violenza e figure pubbliche «divisive», non a legittimare alcun crimine. «Violenza chiama violenza, ma io non la giustifico», insiste.

Il botta e risposta ha immediatamente polarizzato il quadro politico. Dal palco dell’Udc, Meloni allarga il ragionamento: «Veniamo accusati di diffondere odio da chi festeggia o minimizza l’omicidio di un ragazzo che difendeva le sue idee.» E chiede conto alla sinistra: «Dobbiamo immaginare pene inferiori per chi spara a un esponente di destra?». L’obiettivo della premier è duplice: inchiodare gli avversari su un terreno etico – la condanna senza riserve della violenza politica – e presentarsi come argine alla radicalizzazione del dibattito pubblico.

Le opposizioni reagiscono accusando Palazzo Chigi di «incendiare il clima» per coprire una presunta pochezza dell’azione di governo, mentre l’ex premier Matteo Renzi chiede la dimissione del ministro Luca Ciriani dopo un parallelo sulle Br giudicato inaccettabile. Sul versante istituzionale, il titolare del Viminale Matteo Piantedosi invita tutti ad «abbassare i toni», ricordando il «rischio emulazione» quando il dibattito tracima in delegittimazioni e insulti. È una linea che il ministro ripete da giorni: in campagna permanente, le parole pesano.

Dentro questo schema, Odifreddi prova a circostanziare ulteriormente il proprio pensiero: «Kirk aveva posizioni legittime ma divisive. In passato disse che, se si vuole una società armata, ci sono “vittime collaterali”. Io non ferirei mai di spada, preferisco chi non ferisce di spada». Un tentativo di spostare la discussione dal processo alle intenzioni alla critica della cultura delle armi, tema che negli Stati Uniti resta drammaticamente aperto e che anche in Italia divide. HuffPost Italia

Intanto, dagli Usa filtrano dettagli investigativi che confermano l’elevata sensibilità politica del caso. I media americani riferiscono che l’indagato sarebbe sotto sorveglianza speciale in carcere e che gli inquirenti stanno scandagliando i suoi ambienti digitali per capire se – e come – la dimensione dell’odio online abbia inciso sull’azione. Una cornice che rimbalza in Italia e alimenta l’uso identitario di parole e simboli, con i social a fare da megafono e acceleratore di polarizzazione.

Sul piano comunicativo, la premier punta a marcare un solco: condanna «senza se e senza ma» della violenza, fermezza contro chi la minimizza, e – non secondario – una rivendicazione della responsabilità del linguaggio pubblico. La contro-narrazione di Odifreddi cerca invece di sottrarre la propria frase a letture intenzionali: non un via libera alla violenza, sostiene, ma una analisi (contestata) sugli esiti di una retorica che normalizza l’armamento diffuso. Due grammatiche inconciliabili, che finiscono per parlarsi di traverso e per alimentare, ciascuna nel proprio campo, l’idea che l’altro sia il vero pericolo.

Sul fondo resta una domanda che travalica il caso specifico: si può chiedere responsabilità del linguaggio senza trasformare ogni errore, forzatura o analogia infelice in un processo sommario? E, simmetricamente, si può cavalcare l’onda dell’indignazione senza far salire la temperatura del sistema, esponendolo a scosse che la cronaca – in America come in Europa – ci dice essere sempre più frequenti? L’appello del Viminale a «raffreddare» i toni indica una via; il confronto reale, per ora, marcia nella direzione opposta.

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