AGGIORNAMENTI
Cerca
23 Novembre 2021 - 11:48
Anno domini 1474. Nei campi del verde Canavese al confine tra Levone e Barbania, sulle rive del Malone, in terreno sconsacrato, l’essere umano compie atti disumani in nome del Signore.
La giustizia divina si fa tutt’uno con la giustizia terrena per ardere sul rogo povere donne accusate «di avere abbandonato la fede in Cristo per concedersi anima e corpo a maestri infernali, demoni, che le avrebbero inserite nel mondo della magia». Donne che, «tramite queste arti magiche, avrebbero compiuto i delitti più efferati».
È la vicenda delle Masche di Levone. Poco mito e leggenda, tanta storia e realtà. «Il legame di Levone con le masche è un legame purtroppo reale - racconta lo storico Pier Luigi Boggetto, ex consigliere comunale, che sulle streghe levonesi ha scritto un accurato libro -. Tutto nasce da un processo che si è tenuto nel castello di Rivara nel 1474. Sul banco delle imputate vi erano quattro donne di Levone: Antonia De Alberto, Francesca e Bonaveria Viglone e Margarota Braya».
Quattro donne comparse davanti all’Inquisizione, come detto, perché accusate di essersi concesse a quattro demoni e al culto della mia per commettere numerosi delitti. «Anche i più semplici - prosegue Boggetto -. Sono accusate ad esempio di introdursi nelle case dei levonesi e delle persone dei paesi limitrofi per rubare cibarie e bevande da utilizzare nei “sabba”, i rituali dove si mescolavano cibo, danza e accoppiamenti sessuali». Negli atti del processo, giunti integralmente ai giorni nostri, sono elencati tutti i 55 capi di accusa. C’è sia la parte inquisitoria sia la parte requisitoria.
«Di queste quattro donne, Margarota Braya è la più fortunata - ricorda lo storico -. Viene riportato sugli atti che durante gli interrogatori riesce a fuggire e far perdere le proprie tracce. Bonaveria Viglone invece compare ancora nel processo immediatamente seguente, sempre nel castello di Rivara, mentre Antonia e Francesca - alle quali sono attribuite le uccisioni di parecchi bambini (di 25 sono riportati i nomi sugli atti, ma più in generale si parla di “numerosi bambini”) - sono riconosciute eretiche dall’Inquisitore».
Era già un secolo che le autorità ecclesiastiche combattevano le pratiche pagane. Le pratiche «che allontanavano i popolo di Dio dalla religione».
Ma cosa succedeva alle persone ritenute eretiche?
«Venivano consegnate alla giustizia ordinaria, perché l’Inquisizione era un tribunale ecclesiastico, in genere gestito dai frati domenicani, che riconosceva solo a Dio la possibilità di decidere sulla vita e la morte delle persone - prosegue Bogetto -. I destini di Antonia e Francesca vengono quindi affidati al podestà di Levone Bartolomeo Pasquale, che ha in capo la gestione della giustizia ordinaria nella castellata di Rivara di cui il nostro paese faceva parte. La preghiera, se così si può dire, che l’Inquisitore faceva al podestà era quella di trovare la giusta pena ma lasciare comunque in vita le persone inquisite per eresia. Ovviamente era solo un “pro forma”, perché da quando le due donne passano in capo alla giustizia ordinaria il podestà deve agire secondo lo statuto del Comune dell’epoca».
Ma c’è un ma. Il podestà è parte in causa. Due dei bambini morti, infatti, erano suoi figli. «È quasi certo che queste donne non fossero omicide - continua lo storico -. Probabilmente erano solo donne che conoscevano gli usi delle erbe, magari dei funghi allucinogeni, e le utilizzavano per alleviare le sofferenze dei malati. Queste donne erano infatti ben viste dall’autorità, visto che il podestà aveva affidato a loro due figli. Due bambini che purtroppo, perché le conoscenze dell’epoca non era di medicine ma di palliativi, non ce la fanno».
Il podestà non se la sente di dare un giudizio immediato su Antonia e Francesca e sente ancora il parere di un “uditore”, un giurisperito arrivato da Front. Ma davanti ad una condanna da parte dell’Inquisizione e ad un podestà che ha perso due figli, il giurisperito non può che confermare la sentenza. «Lo statuto, pur essendo formato in un periodo in cui nella castellata di Rivara e Levone cominciava ad esserci un barlume di democrazia, visto che era concesso sì dai Conti Valperga di Rivara ma con il consenso della comunitas, il consiglio comunale dell’epoca, aveva comunque all’interno un “articolo” che diceva che prevedeva la condanna a morte per arsione per chiunque avesse avvelenato con sistemi non tradizionali un’altra persona».
A questo punto il podestà non può fare altro che fare eseguire la pena. «Chi veniva condannato a morte per eresia dal tribunale dell’Inquisizione doveva essere bruciato, in modo che non ne rimanesse nulla, neanche l’anima, e perfino la casa di proprietà veniva rasa al suolo - aggiunge Boggetto -. Dopo 13 mesi di processo, il 7 novembre viene effettuata la condanna al rogo. In genere chi era condannato al rogo subiva una tortura finale, oltre a quelle degli interrogatori. Era il tiro di corda, ovvero dalla posizione di “incaprettato”, termine diventato noto per alcuni crimini mafiosi in Italia, si dava il tiro di corda rompendo contemporaneamente gli arti. Questa peraltro era una fortuna, anche se chiamarla così è un po’ azzardato, perché provocava lo svenimento di chi era arso al fuoco. Per Antonia e Francesca, però, i crimini devono essere stati considerati di una gravità tale da evitare il tiro di corda. Detto così sembra un favore, ma non lo era, perché non svenendo queste due donne si sono rese conto di bruciare vive».
Un episodio del genere si tramanda di generazione di generazione, di padre in figlio, di madre in figlia. Di famiglia in famiglia. Oggi si è a conoscenza di questi fatti grazie alle ricerche dello storico dell’Archivio del Regno di Torino, Pietro Laira, che passando le ferie in Canavese - tra Corio, Rocca, Rivara e soprattutto Levone - si imbatte più volte nei racconti sulle masche.
«Da buon archivista, gli venne in mente che forse qualcosa del genere era veramente successo - racconta ancora Boggetto -. Laira trova gli atti di questi due processi e ricostruisce la vicenda storica». Una storia che appunto si è fatta mito nei racconti tramandati nel corso dei secoli a Levone. «Da levonese con papà, nonni e bisnonni levonesi ho scoperto, nelle mie ricerche, che alcune parti del processo venivano raccontate ancora nel ventesimo secolo ai bambini del paese - ammette -. Ad esempio il racconto di personaggi che la notte veniva a succhiare i pollici dei neonati per farli seccare, per togliere loro la linfa vitale. Questo è proprio uno dei capi di accusa del processo».
Tutto ciò è raccontato nel volume di Boggetto “Le streghe di Levone - Tra realtà e mito”, che l’ex consigliere levonese ha pubblicato sotto lo storico editore eporediese Cesare Verlucca. Nel suo libro lo storico parla del processo e di tutto il mito delle masche che continua a contraddistinguere Levone.
Cos’è rimasto, oggi, delle masche di Levone “tra realtà e mito”, come direbbe Boggetto? Ce lo racconta il sindaco Massimiliano Gagnor che, fin dall’insediamento, ha cercato di recuperare la memoria di quei tragici fatti accaduti nel nostro Canavese quasi cinque secoli fa. «Come Amministrazione stiamo portando avanti una serie di progetti che riguardano soprattutto la valorizzazione della vicenda storica delle masche - spiega Gagnor -. Abbiamo depositato in Camera di Commercio un marchio, diventato ufficiale, che riguarda proprio le masche». Nel centro del paese, davanti alla chiesa, è presente una grossa riproduzione. «È stato creato dall’artista locale Paola Cera che ha racchiuso in un concetto di sigillo il richiamo alla vicenda di queste quattro donne - aggiunge il primo cittadino -. Nel marchio le donne si tengono per mano da un lato per simulare un sabba ma anche per ricordare il forte valore dell’unione, della condivisione, dell’amicizia. Abbiamo poi il sigillo ovale con la dicitura “Le masche di Levone” che richiama il sigillo antico posto sugli atti dell’Inquisizione, con i medesimi caratteri e forma grafica».
Ma le masche sono ricordate anche con altre iniziative che l’amministrazione comunale sta cercando di lanciare nonostante i tempi di pandemia. «Purtroppo il Covid ci ha un po’ rallentati - ammette Gagnor - ma stiamo cercando di lanciare un corso di lavorazione di ceramica che ha forte attinenza con la tradizione delle masche».
L’arte, la manifattura e i racconti sulle masche si intrecciano già da tempo. L’artista torinese Ilario Simonetta ha realizzato una serie di opere in legno e pietra che hanno un forte richiamo alla segreteria e che attualmente sono custodite nei locali comunali, in attesa di una maggiore valorizzazione quando ve ne sarà la possibilità. Inoltre nel parco del Comune sono presenti due masche di ferro forgiate dall’associazione dei battitori di ferro e donate alla comunità durante la Sagra del Pignoletto di alcuni anni fa.
«La promozione della tradizione delle masche di Levone vogliamo rivolgerla soprattutto alla valorizzazione della storia reale di queste quattro donne, uscendo un po’ dallo stereotipo classico del concetto di strega - rimarca Gagnor -. Queste sono donne che sono state catturate, processate e torturate a morte e vogliamo ricordare che in passato, ma anche purtroppo nel presente, le donne continuano a subire soprusi».
La storia delle masche si riverbera anche sull’edilizia e il modo di addobbare le proprie case nella quotidianità. Basta percorrere le vie del paese per notarlo. «Spesso si trovano su alcune abitazioni parti architettoniche che mettono in evidenza il fatto che ci fosse un certo timore delle masche. Spesso sulle case, sugli archi di ingresso dei cortili, si trovano delle croci o piccole sculture che servono a far capire che le streghe in quel posto non sono ben accette». In una casa è presente, ad esempio, una croce a testa in giù con la data 1666 che riporta il numero del diavolo, appunto il 666.
Nella parte alta verso la chiesa di Sant’Antonio, che riporta l’effige della Sindone ancora prima delle bruciature patite durante l’incendio di Chambéry, si possono incontrare alcune case molto particolari e pittoresche. Ce n’è una che riporta la data del 1766 sul cornicione della finestra, con una meravigliosa vite che lo attraversa. «La vite è anche un po’ un richiamo alla tradizione della produzione di vino e uva che è stata recentemente ripresa da un giovane viticoltore, Lorenzo Simone, che proprio a Levone ha aperto la cantina delle Masche nella quale produce vini ai quali ha dato i nomi delle quattro donne processate e condannate».
Le masche di Levone sono anche all’origine dell’idea di Lorenzo Simone che nel 2014 ha aperta la sua azienda agricola in paese. «Questa attività nasce dalla volontà di un giovane vignaiolo che ha voluto recuperare la tradizione dei vigneti in Canavese chiamando la sua azienda “Le Masche” per riscattare un’antica storia legata alla stregoneria - racconta il padre Arturo Simone, che aiuta il figlio nell’attività della cantina -. Proprio le masche danno il nome all’azienda e a tutta la gamma di produzione dei vini. Abbiamo Francesca, un Canavese rosato doc, Antonia che è un Erbaluce, Bonaveria che è una Barbera barricata qui, Margatora che è un Canavese rosso doc. Abbiamo inoltre il Canavese Nebbiolo Gaiarda che sta riscuotendo molto successo e ha avuto anche riconoscimenti prestigiosi».
Edicola digitale
I più letti
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.