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Mazzè si ferma per Jacopo: dolore, lacrime e quel palloncino bianco che non è volato via... (VIDEO)

Per l'ultimo saluto al giovane morto nell'esplosione del condominio di via Nizza a Torino, una folla di amici, il sindaco di Mazzè e l'assessore Chiavarino in rappresentanza del sindaco Stefano, Lo Russo

Jacopo Peretti questa mattina è tornato a casa. Non nel modo in cui tutti speravano. A riportarlo a Mazzè è stata una bara bianca, coperta da un cuscino di orchidee gialle, circondata da scritte colorate, lacrime, abbracci, silenzi. In tanti, tantissimi, si sono stretti oggi attorno alla famiglia del ragazzo morto nell’esplosione del palazzo in via Nizza a Torino, un incendio doloso appiccato da Giovanni Zippo per vendetta contro la fidanzata. Jacopo dormiva nel suo appartamento, al piano di sopra, quando è stato travolto dalla furia delle fiamme e dalla distruzione.

Mazzè si è fermata. Letteralmente. Ogni negozio, ogni attività, ogni rumore è cessato in questa giornata nella quale il sindaco ha proclamato il lutto cittadino. Tutti volevano esserci per Jacopo, per sua mamma Marzia Grua, per il nonno Severino, ex presidente della Pro Loco e figura conosciuta in paese, per il papà Paolo, per il compagno Gioele, per gli amici di una vita che hanno lasciato il segno con un gesto potente: la bara era piena di messaggi colorati e sopra c’era un grande manifesto, un collage di fotografie e una frase che spaccava il petto: “Hai dato tanto a tutti noi. Ora tocca a noi portarti nel cuore. La tua assenza grida giustizia. Jacopo, ti vogliamo bene! Tutti quelli che ti hanno conosciuto”.

In chiesa, accanto al parroco don Alberto Carlevato, c’erano anche i simboli delle istituzioni. Il sindaco di Mazzè, Marco Formia, con la fascia tricolore. L’assessore al Commercio della Città di Torino Paolo Chiavarino, in rappresentanza del sindaco Stefano Lo Russo. E anche il gonfalone di Torino, a ricordare che Jacopo, oggi, è pianto da due comunità.

Duro, accorato e commovente l’intervento del parroco Carlevato, che ha scelto un parallelo forte: «Jacopo come Gesù. Una morte ingiusta, provocata dall’invidia e dalla cattiveria altrui». Ha parlato di resurrezione, ma soprattutto di silenzio: «Tante volte il silenzio è la migliore condizione per meditare quanto dei nostri cari morti ricordiamo», ha detto davanti a una chiesa gremita e commossa.

Accorate anche le parole del vescovo di Torino, monsignor Roberto Repole, che in una lettera affissa alla parrocchia dell’Assunzione in via Nizza, dove ieri si è svolta una prima cerimonia di saluto, ha parlato del sacrificio innocente di Jacopo, della sua morte assurda come segno dei mali di una società “che ancora non sa riconoscere e fermare chi coltiva il rancore, la vendetta, la distruzione”.

L’assordante assenza dell’uomo che ha causato tutto questo, Giovanni Zippo, è diventata ulteriore motivo di dolore e rabbia. Nessun messaggio, nessuna telefonata, neppure una parola. Lo ha confermato la mamma di Jacopo con fermezza: «Non c’è stato alcun contatto. Nessun messaggio di scuse. Niente di niente». Eppure Marzia, con la forza di chi ha visto il fondo del dolore ma sceglie di restare umana, ha voluto rivolgere il suo pensiero anche a chi è ancora in ospedale, a chi ha perso la casa: «Sono vicina a tutte quelle persone, alle loro famiglie, a chi ha perso tutto».

E poi c’è Gioele. Il compagno. Il ragazzo con cui Jacopo sognava un futuro. Le sue parole sono state lette in chiesa e hanno spaccato ogni argine di commozione. «Nel poco tempo che il destino ci ha lasciato, abbiamo riso, scherzato, viaggiato. Timidamente facevamo progetti. Senza dircelo, volevamo un futuro insieme. L’ultimo ricordo che voglio avere di te è l’ultima notte serena, nella casa dei Bonetti, sdraiati sul letto a guardare il tramonto dietro le montagne». Poi il ringraziamento ai soccorritori, la memoria delle loro giornate nella casa di via Nizza, l’ironia sottile dei piccoli gesti. Una dolcezza che taglia il fiato.

 

Anche il sindaco Marco Formia, tra la commozione e la fatica del dolore personale – Marzia è un’amica, Severino un compagno di tante battaglie – ha scelto parole dense: «Jacopo era un nostro giovane concittadino. Questo evento, già di per sé terribile, ha avuto connotazioni ancora più gravi. Dobbiamo riflettere. Questo sacrificio non va dimenticato. Faremo qualcosa per ricordarlo. È una promessa».

All’uscita dalla chiesa, tra gli abbracci e i singhiozzi, è avvenuto qualcosa che nessuno dimenticherà. Palloncini bianchi, azzurri e rossi si sono alzati in cielo. Tutti, tranne uno. Uno è rimasto nelle mani di Marzia. Lei non lo ha lasciato andare. Lo ha stretto a lungo. Come se fosse un ultimo gesto di vicinanza, come se quel palloncino fosse Jacopo. Lo ha tenuto con sé anche quando tutti erano già andati via. E lo ha portato con sé in macchina, mentre accompagnava per l’ultima volta suo figlio verso il tempio crematorio di Mappano.

LA LETTERA DEL CARDINALE REPOLE

Nel giorno dell’ultimo saluto a Jacopo, tra le voci spezzate e i silenzi carichi di senso, si è levata anche quella dell’arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole, attraverso una lettera affissa all’ingresso della chiesa torinese di via Nizza dove si era svolta, il giorno precedente, la prima commemorazione pubblica del ragazzo.

Una lettera breve ma densa, che non ha avuto bisogno di giri di parole per restituire la profondità dello sgomento collettivo e il peso spirituale di quanto accaduto. Il cardinale ha parlato di una morte ingiusta, di un ragazzo strappato alla vita per colpa di un’azione che nulla ha a che fare con il caso, con la fatalità, con l’errore umano. «La morte di Jacopo non è solo una tragedia, è un’ingiustizia, un dolore che interroga la coscienza di tutti», ha scritto Repole.

Nel suo messaggio, il pastore della diocesi ha voluto dare un nome a ciò che si fa fatica a nominare: la responsabilità, la cattiveria, l’odio. E ha indicato anche una direzione possibile per la comunità, un sentiero che passa attraverso la memoria, la compassione, ma anche la richiesta di verità e giustizia.

«È compito di una comunità cristiana non solo custodire il dolore, ma anche trasformarlo in cammino condiviso – ha scritto –. E questo dolore chiede di essere accolto, elaborato e non dimenticato. Jacopo non può restare solo una vittima: la sua memoria ci spinga a riconoscere ciò che nella nostra società alimenta rancori e vendette».

Poi, un pensiero delicato rivolto alla famiglia distrutta, a quella mamma e a quel compagno spezzati ma dignitosi, alla comunità che ha saputo stringersi con calore attorno a loro. E un ultimo richiamo, sobrio ma deciso, alla necessità di proteggere la fragilità degli altri: «Ogni vita umana è fragile. Ma ogni vita ha un valore sacro. E quella di Jacopo, spezzata da un atto volontario e crudele, ci obbliga a una riflessione collettiva sulla nostra capacità di riconoscere, prima che sia troppo tardi, i segnali di chi cova odio e distruzione».

Non una semplice benedizione, quindi, quella lasciata da monsignor Repole, ma una chiamata etica alla comunità intera. Una voce forte, come quella del parroco Carlevato, che ha trasformato una cerimonia di addio in un appello civile. Un segno che, anche nel buio, non tutto è perduto se si ha il coraggio di guardare in faccia il male e opporgli la forza disarmata della memoria e della giustizia.

Mazzè ha salutato Jacopo. Lo ha fatto con il cuore in frantumi, ma con una dignità commovente. Gli amici, i familiari, le istituzioni, la comunità intera. Tutti uniti nel nome di un ragazzo che non doveva morire così, che amava, che era amato, che aveva dei sogni. E che ora vive nei ricordi, nelle fotografie, nelle parole strazianti lasciate su quella bara, nella lettera di chi lo ha amato fino all’ultimo istante.

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