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Torino
14 Ottobre 2025 - 00:03
I “pellegrini della speranza” del MEAN tra le bandiere ucraine, accanto al popolo che resiste.
“La notte si è incendiata di bagliori, poi il boato. Era il viaggio di ritorno. Leopoli è stata colpita dal più violento attacco dall’inizio della guerra: missili da crociera, bombe a grappolo, droni e, per la prima volta, tre satelliti cinesi a guidare la distruzione. Il treno si è arrestato bruscamente, le lamiere hanno tremato, gli sguardi si sono incrociati nel silenzio sospeso della paura”.
Inizia così il racconto del torinese Luca Jahier, protagonista del viaggio per la pace in Ucraina insieme ai 110 “pellegrini della speranza” del MEAN.
“Abbiamo avuto paura, sì — confessa — ma è stato solo un assaggio della condizione quotidiana che gli ucraini vivono nelle loro case, nelle scuole, negli ospedali. Noi siamo stati passeggeri della paura, loro ne sono prigionieri da 1322 giorni”.
Il gruppo del “Pellegrinaggio della Speranza” del MEAN in partenza per l’Ucraina.
È questo il ‘Pellegrinaggio della Speranza’, promosso dal MEAN – Movimento Europeo Azione Nonviolenta, con oltre trenta associazioni italiane, tra cui ACLI, Azione Cattolica, Agesci, Masci e Ordine francescano secolare. Centodieci italiani, fra sindaci, amministratori, giovani e religiosi, hanno viaggiato dall’1 al 5 ottobre per condividere fraternità e ascolto con le comunità ucraine, nel cuore di un Paese che resiste sotto le bombe.
“Freedom”, libertà. Una parola di metallo che risplende tra le rovine, come un grido che resiste alla notte.
“Non siamo andati per fare beneficenza - spiega Jahier - ma per vivere un’esperienza giubilare, per guardare negli occhi un popolo che resiste e dire: non siete soli. La nostra presenza è un gesto politico, civile e spirituale insieme”.
“Sono convinto - afferma ancora - che la pace non sia un tema da lasciare ai politici o ai generali. È il popolo della pace che deve mettersi in cammino. Le guerre si vincono con le armi, ma la pace si costruisce con le relazioni, con la fiducia, con la presenza”.
Parole che acquistano peso se si pensa al percorso di chi le pronuncia. Ex presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) e del Consiglio nazionale delle ACLI, Luca Jahier è una delle voci più autorevoli della società civile europea. Da sempre impegnato a costruire un’idea di Europa “comunitaria, solidale e radicata nei popoli”, oggi aderisce al MEAN, il movimento che crede nella pace generata dal basso, attraverso la presenza attiva delle comunità e delle Chiese.
Quando il treno ha raggiunto Kiev, li ha accolti il suono delle sirene. Ogni giorno, alle nove del mattino, un minuto di silenzio per ricordare i caduti. Poi la vita riprende: i negozi aprono, la metropolitana si riempie, il traffico scorre. “Kiev mostra il volto ingannevole di una città in pace - racconta Jahier - ma ogni allarme ti ricorda che sei in una capitale sotto attacco. È una normalità sospesa, un equilibrio fragile tra paura e coraggio”.
Monsignor Visvaldas Kulbokas, Nunzio apostolico a Kiev.
In piazza Maidan, simbolo della rivoluzione e della libertà, i pellegrini hanno pregato con il Nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas, che li ha salutati con parole che Jahier definisce “un manifesto di responsabilità civile”.
“Non si può lasciare ai politici il problema della pace e della guerra - ha ribadito Kulbokas. “Sento discorsi surreali, proposte non realizzabili. Serve la fatica di trovare risposte concrete. La società civile e le Chiese devono stare in campo, farsi trasformare dall’essere dentro le situazioni”.
Alla Cattedrale di Sant’Alessandro, il vescovo Vitaliy Kryvytskyi ha aggiunto: “Ci fa soffrire la stanchezza, i morti, ma anche il vedere come il mondo giudica questa guerra. Se non ci fossero i nostri difensori al fronte, noi non potremmo essere qui”.
Jahier ascolta in silenzio, annota, e poi commenta: “Queste parole pesano come macigni. Parlano di un popolo che non si arrende, che chiede solo di essere capito, non compatito”.
Tra i muri feriti di Kharkiv, qualcuno ha scritto un sogno: “Kharkiv is a dream”. Un messaggio fragile e potente come la città stessa.
L’anima del viaggio è stata Kharkiv, antica capitale dell’Ucraina, a soli quaranta chilometri dal confine russo. “Da gennaio, 4.500 attacchi hanno devastato scuole, ospedali, condomini, fabbriche”, racconta Jahier ed aggiunge:“Qui si percepisce la densità della tragedia e insieme la grandezza dell’animo umano. Le strade sono pulite, i parchi curati. È come se la bellezza fosse un modo per resistere. Curare la città diventa un atto politico”.
Il comandante militare della regione ha detto ai pellegrini: “Vi è una quantità di mine mai viste dalla Seconda guerra mondiale”. Eppure, i sindaci e gli amministratori locali continuano a garantire i servizi essenziali. “In Ucraina - sottolinea poi Jahier - i Comuni sono stati il vero nerbo della resistenza civile. È la democrazia di prossimità che tiene in piedi il Paese”.
Bandiere ucraine, volti scolpiti nella pietra e ricordi d’infanzia: il silenzio dei caduti parla più di mille parole.
Nei luoghi di culto, i pellegrini hanno scoperto una “Chiesa ospedale da campo”: sacerdoti, suore, volontari, tutti impegnati in una quotidiana azione di sostegno materiale e spirituale. “Abbiamo visto - ricorda Jahier - un popolo che non smette di credere nella vita. La fede qui non è teoria: è sopravvivenza”.
In un cimitero, tra le croci bianche e le bandiere giallo-blu, il dolore ha toccato il suo apice. “C’erano lapidi di bimbi di quindici mesi, di giovani sposi, di intere famiglie – riporta Jahier con voce bassa - È un dolore composto, dignitoso. Ma è un urlo muto contro l’assurdità della guerra”.
Davanti al maestoso organo della sala, uniti dai colori della pace: italiani, europei e ucraini insieme per dire “No more wars!”.
Poi, un dono inatteso: nel teatro cittadino chiuso dal 2022, il maestro Yuriy Yanko ha fatto risuonare il grande organo della Filarmonica, 5.700 canne di musica e speranza. “È stato come respirare di nuovo - dice Jahier - La cultura, la musica, la poesia sono parte della resistenza ucraina. Curano le ferite invisibili”.
Cettina Moretti, moglie del presidente del MEAN, ha osservato con occhi lucidi: “Mai nessuno di loro si è lamentato. Mai nessuno ha pronunciato la parola ‘russo’. Dicono solo ‘aggressore’ e parlano di ricostruzione. L’aggressore bombarda la palestra, loro la ricostruiscono. Bombarda le finestre, loro mettono il compensato. E continuano a vivere, orgogliosi del loro desiderio di libertà”.
Una frase che Jahier ripete spesso, come un refrain: “Questo popolo non si piega”. A Kiev, una bambina ha abbracciato le gambe di tre pellegrini. Pensava fossero soldati, poi ha capito che erano lì per la pace – spiega Luca Jahier - È stato Sergey Chernov organizzatore del pellegrinaggio, a dirlo con commozione: “Quando mi avete detto che sareste venuti a Kharkiv, non potevo crederci. Quando ho visto la lista, ho ringraziato per il vostro coraggio, che ci dà speranza”.
E il vescovo Pavlo Honcharuk ha aggiunto: “Vi chiedo di essere quella forza silenziosa che ci protegge in questa notte e ci dà speranza”. Sono parole che Jahier ha fatto proprie: “La nostra forza non è nel rumore, ma nella presenza. È nel restare accanto a chi soffre, senza pretendere di risolvere, ma continuando a credere nella fraternità come unica via di futuro”.
Tornati in Italia, molti dei pellegrini stanno accogliendo famiglie ucraine, organizzando periodi di ristoro per i bambini e percorsi di collaborazione tra università e comuni. Il progetto dei Corpi civili di pace prende forma, come risposta concreta a ciò che hanno visto. “La via di una pace giusta è ancora lontana - ammette Jahier - ma abbiamo incontrato una popolazione che resiste, sogna e costruisce legami. La speranza nasce nelle ferite. E la fraternità che cura e genera vita è l’unico futuro possibile”.
Un sorriso che unisce due mondi: Yuriy Yanko, direttore di orchestra ucraino, e Luca Jahier, legati dalla stessa idea di armonia e speranza.
BOX: Chi è Luca Jahier
Torinese, classe 1964, già presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) dal 2018 al 2020, ha orientato il suo impegno su tre priorità fondamentali: Europa sostenibile, pace e cultura. Dal 2020 è membro del CESE e attualmente vicepresidente dell’European Semester Group. La sua carriera all’interno del Comitato è iniziata nel 2003: nel corso degli anni è stato per due mandati presidente del Gruppo III, vicepresidente dello stesso e della Sezione Occupazione, Affari sociali e Cittadinanza. In precedenza, ha ricoperto ruoli di vertice in diverse organizzazioni nazionali e internazionali, tra cui le Acli e la Focsiv, di cui è stato presidente. È inoltre fondatore di IXE – Initiative of Christians for Europe, una rete europea di associazioni cristiane impegnate nel dialogo e nella partecipazione civile.Laureato in Scienze politiche, ha lavorato come giornalista, scrivendo per varie testate su temi sociali ed europei. L’Europa è da sempre la sua più grande passione e il filo conduttore della sua vita professionale: un impegno costante per un progetto europeo più equo, sostenibile e autenticamente comune. “Essere europei - sostiene - significa non voltarsi dall’altra parte. La pace non si costruisce nei palazzi, ma nei villaggi, nei rifugi, nei volti. E soprattutto, nei gesti concreti di chi sceglie di esserci”.
N.B. Le fotografie sono state fornite da Luca Jahier con autorizzazione alla pubblicazione.
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