La rappresaglia dell'8 agosto 1944 a Settimo Torinese
L’8 agosto 1944, a Settimo Torinese, per rappresaglia, i tedeschi impiccarono sei giovani resistenti sotto il ponte dell’autostrada di Milano (via Leinì). Quel luogo, da settant’anni, conserva il ricordo del sacrificio compiuto dai patrioti per la rinascita dell’Italia e della violenza con cui l’invasore agiva nel tentativo d’imporre la propria volontà di dominio. È stupefacente, tuttavia, come sia cresciuto all’inverosimile, col trascorrere del tempo, il numero di coloro che sostengono di avere assistito alla rappresaglia. Trattandosi di persone che superano a malapena gli ottant’anni d’età, si arguisce che i tedeschi uccisero i sei partigiani davanti a una folla di fanciulli e adolescenti. È non meno sbalorditivo che nella vicenda s’introducano sempre nuovi protagonisti, attribuendo la rappresaglia non ai soldati della Wehrmacht o alle SS, ma ai fascisti repubblicani (di volta in volta, Brigate nere, Decima Mas, ecc.). Il vicesegretario comunale Achille Neglia, recatosi sul posto per ordine dei tedeschi, è confuso con Luigi Raspini, il sindaco antifascista del dopoguerra: una delle sedicenti testimoni lo ricorda in lacrime, quel giorno, in municipio. Né può mancare un risolutivo intervento femminile, in nome della parità di genere. I corpi dei «sei ragazzi» – delucidava «La Stampa» nel settembre 2004 – «vennero lasciati penzolare […] per tutto il giorno, fin quando […] alcune donne chiesero il permesso di tirarli giù». Nei racconti degli improbabili spettatori, infine, l’impiccagione è talvolta presentata alla stregua di un thriller d’infimo ordine. I militi avrebbero percosso crudelmente le povere vittime affinché gridassero «Viva Benito Mussolini! Viva il Fascio!», appendendole a robusti fili di acciaio che laceravano lentamente le carni, come in una truculenta scena cinematografica. Dall’alto del ponte i fascisti si sarebbero divertiti a estendere e accorciare i fili al solo scopo di protrarre l’agonia dei partigiani. Il che è falso. Pur non essendo questa la sede per prendere in esame lo spinoso problema della memoria individuale in quanto atto creativo influenzato da interessi, norme, valori e mode del presente, non si può tacere del rischio che nella memoria collettiva, fondamento ed espressione dell’identità di gruppo, si trasferiscano memorie soggettive e inverosimili come quelle a cui si è fatto cenno. Fra queste – rileva il noto storico Claudio Pavone – «si crea il più delle volte un continuo gioco di reciproci rinvii: dal ricordo individuale di singole esperienze si passa, spesso senza mediazioni, alle generalizzazioni di cui si nutre la memoria collettiva, a sua volta desiderosa di una molteplicità di episodi che ne suffraghino la verità». Sorvolando sulle facili ambizioni di protagonismo dei presunti testimoni, il caso di Settimo Torinese s’inquadra all’interno dell’annoso conflitto fra storia e memoria, due concetti del tutto differenti, al contrario di ciò che molti pensano. La prima, prefiggendosi di conoscere i fatti realmente accaduti, ricorre a regole di contestualizzazione, verifica e critica, diversamente dalla seconda che opera in modo malsicuro e incontrollabile sul passato, in base alle esigenze e alle attese del presente. Non a caso, le memorie sono una componente sempre più ampia della politica. In definitiva, è auspicabile che la scuola, specie quella dell’obbligo, aderisca pienamente al suo ruolo istituzionale che consiste nella trasmissione del sapere, fra cui rientra a pieno titolo l’insegnamento della storia, cioè della logica, dei fondamenti e degli esiti più significativi del metodo storico, senza l’ansia di esibire testimoni né indebite confusioni fra storia e memorie.
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