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Cronaca
12 Dicembre 2025 - 00:18
Le notizie sull’ormai probabile archiviazione dell’inchiesta relativa alle violenze di Capodanno in piazza Duomo, a Milano, non hanno fatto in tempo a consolidarsi che già hanno riaperto un fronte politico e culturale di enorme delicatezza. Nella serata di ieri, ospite di Paolo Del Debbio a «4 di Sera» su Retequattro, il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio ha preso posizione in modo netto, interrogando non soltanto la dinamica dei fatti — su cui la Procura di Milano è orientata alla chiusura per mancanza di elementi — ma anche ciò che, secondo lui, quell’episodio ha significato nei giorni successivi.
Cirio ha innanzitutto rivendicato una postura identitaria precisa, quasi a voler sgomberare il campo dalle semplificazioni: «Io sono un liberale e lungi da me considerare l'equazione tra straniero e delinquente, non appartiene al mio modo di pensare, credo di nessuno». Una dichiarazione di principio che apre però immediatamente la strada a una riflessione più dura. Il presidente ha infatti ricordato ciò che, a suo dire, è stato rimosso troppo in fretta: le rivendicazioni seguite all’episodio denunciato da una studentessa di Liegi, che la notte del 31 dicembre era a Milano con cinque amici.
Secondo Cirio, la portata dell’evento non si limita alla violenza in sé — già gravissima — ma diventa “molto più grave” per un altro motivo: «Nei giorni successivi è stato rivendicato come un rituale. Un rituale che traeva origine dal 2005, quando la polizia egiziana, per umiliare le donne che non sottostavano ai dettami dell’Islam, le circondava, le spingeva, le malmenava e le stuprava». Un riferimento diretto alla pratica del taharrush gamea, fenomeno documentato in diverse aree del Nord Africa e già emerso nel dibattito pubblico europeo dopo le aggressioni di Colonia del 2015.

La sua analisi tocca il punto più sensibile nel dibattito italiano attuale: il rapporto tra integrazione, cultura di provenienza e compatibilità con i valori costituzionali. Cirio insiste sul fatto che origine e generazioni non possono essere l’alibi per pensare di poter violare i diritti fondamentali. «Puoi essere italiano di seconda, terza, quinta generazione, ma se tu pensi che in piazza Duomo a Milano a Capodanno, in quella serata di festa, tu possa, rivendicando un rituale religioso del tuo Paese di origine, prendere una donna, malmenarla, stuprarla, palparla, rivendicando di rimanere impunito perché era un rituale della tua origine, per me non sei italiano».
Un passaggio che definisce il baricentro della sua posizione: l’identità non si eredita come un documento, ma si costruisce attraverso una compatibilità con i principi della comunità.
Il presidente torna più volte sul suo dichiarato equilibrio politico: «E glielo dico da moderato, glielo dico da liberale, glielo dico da persona che sa che l’equilibrio è il punto più importante da raggiungere». Ma è proprio da questo punto di equilibrio, dice, che nasce la sua conclusione: «Proprio perché sono un liberale dico che la libertà si basa sul fatto che per tutelare la libertà nostra noi dobbiamo essere rigorosi con chi non è compatibile con la comunità e con i valori base della nostra Costituzione e lì c'è il rispetto delle persone».
Parole destinate a fare rumore, soprattutto perché arrivano in un momento in cui la Procura di Milano si prepara a chiedere l’archiviazione. Mancano i riscontri tecnici, le immagini delle telecamere non hanno restituito elementi utili, le persone coinvolte non hanno più fornito testimonianze. Il fascicolo — aperto contro ignoti per violenza sessuale di gruppo, reato procedibile d’ufficio — sembra destinato a spegnersi senza esiti giudiziari. Una chiusura procedurale che però, inevitabilmente, non spegne affatto il dibattito politico e sociale.
In questo vuoto lasciato da un’indagine che non riesce a individuare responsabili, il presidente Cirio recupera un altro tipo di responsabilità: quella culturale. Lo fa con un tono misurato ma fermo, che evita derive securitarie ma denuncia ciò che percepisce come un rischio: la normalizzazione di riti di dominio incompatibili con qualunque società democratica. Il suo intervento diventa quindi una sorta di monito: l’integrazione, per essere reale, non può prescindere dalla condivisione del principio del rispetto dell’altro, soprattutto quando si parla di donne.
Viste da questa prospettiva, le parole di Cirio non sono solo una reazione alla fine di un’indagine. Sono un tentativo di impedire che l’archiviazione si trasformi in archiviazione culturale di un problema che resta aperto.
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