AGGIORNAMENTI
Cerca
Cronaca
19 Novembre 2025 - 01:01
“Vieni al parco Mauriziano”: ma dietro la foto della ragazzina c’erano due giovani ricattatori. Presi dai carabinieri
C’è una linea sottile, quasi invisibile, che separa la normalità digitale dalla sua deriva più insidiosa. Una linea che un 61enne dell’Alto Canavese ha oltrepassato senza nemmeno rendersene conto, trascinato da una fotografia: una ragazza dai capelli lunghi, ripresa di profilo, comparsa prima su Nirvam – una piattaforma di incontri come tante – e poi rimbalzata sulle chat di Telegram, dove profili veri e falsi convivono senza filtri. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quella foto, apparentemente innocua, fosse in realtà il gancio di un raggiro studiato nei minimi dettagli.
Per giorni, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, l’uomo avrebbe scambiato messaggi con chi si spacciava per una minorenne. Conversazioni leggere, qualche allusione, il crescere di una certa confidenza. La dinamica classica di chi vive il mondo delle chat come un’estensione del salotto di casa, ignaro che dietro uno schermo qualunque potesse nascondersi qualunque cosa. L’appuntamento, concordato senza esitazioni, era stato fissato nel parco del Mauriziano a Chivasso, un’area verde, ampia, isolata.
Quando il 61enne ci è arrivato, però, la scena che gli si è presentata davanti ha "corretto" di colpo la sua aspettativa.
Era già buio, le panchine illuminate appena dai lampioni, l’atmosfera carica della tipica inquietudine che accompagna le truffe in procinto di compiersi.
Nessuna ragazzina dai modi gentili, nessun volto riconducibile alla fotografia circolata in rete. Ad attenderlo c’erano due giovani: un 22enne di Strambino e un diciassettenne di Romano Canavese, entrambi con un ruolo ben preciso nella messinscena.
I due, secondo gli investigatori, non avrebbero esitato a passare dalle parole ai fatti: la richiesta di denaro, la minaccia di chiamare le forze dell’ordine, l’allusione al reato di adescamento.
Un meccanismo psicologico collaudato. Chi viene accusato improvvisamente di un comportamento moralmente riprovevole tende a cedere pur di evitare conseguenze, giudizi, esposizioni pubbliche. I ragazzi contavano proprio su questo: sulla vergogna e sulla paura. Una tattica che, in tanti casi analoghi, ha funzionato.
Non questa volta.
Nascosti tra gli alberi, con i giubbotti scuri e il passo silenzioso tipico delle operazioni di controllo, c’erano infatti i carabinieri della Sezione operativa della Compagnia di Chivasso. Un monitoraggio discreto, iniziato ore prima, organizzato nei dettagli e coordinato dalla sostituta procuratrice Valentina Bossi.
I militari attendevano solo il momento esatto in cui l’estorsione sarebbe emersa chiaramente, per intervenire senza lasciare margini di fuga. E così è stato: pochi secondi, il fruscio improvviso delle foglie, la corsa dei carabinieri, i due giovani immobilizzati. Arresto immediato, accusa pesante: tentata estorsione.
Il 22enne è stato trasferito in carcere in attesa dell’udienza di convalida, poi assegnato ai domiciliari. Il minorenne, inizialmente accompagnato al Centro di prima accoglienza “Uberto Radaelli” di Torino, ora è sottoposto all’obbligo di permanenza in casa. Due percorsi giudiziari paralleli, ma entrambi segnati da una dinamica criminale che gli inquirenti considerano tutt’altro che isolata.
Il 61enne, sottolineano dalla Procura, è vittima a tutti gli effetti. Non gli viene contestato alcun adescamento, né alcuna condotta illecita. È caduto in un inganno costruito su misura, come tanti uomini convinti, ingenuamente, che dietro un profilo online si nasconda sempre una persona reale.
E qui si apre il capitolo più inquietante della vicenda: quello delle indagini che continuano, e che potrebbero svelare un fenomeno ben più esteso. In procura a Ivrea sarebbero già arrivate nuove segnalazioni con elementi simili: foto di minorenni usate come esca, profili fasulli, appuntamenti in zone appartate tra il Canavese e Chivasso, minacce di rovina sociale in cambio di denaro.
Una modalità ricorrente che lascia spazio a più ipotesi: un gruppo di giovani che opera in coppia o un sistema più articolato che sfrutta la vulnerabilità di uomini adulti poco avvezzi alle insidie digitali.
Gli investigatori parlano esplicitamente di “sextortion”, un termine che ormai non è più un tecnicismo giudiziario, ma la definizione di una pratica criminale sempre più presente nelle statistiche giudiziarie.
E non solo. Nella sua relazione annuale, la procuratrice capo Gabriella Viglione aveva già lanciato l’allarme contando un centinaio di casi di estorsione in un anno molti dei quali consumati proprio dietro le quinte di Telegram dove circolano non solo profili fasulli ma anche traffici di tutt’altra natura, come quello della droga gestito attraverso messaggi criptati e gruppi nascosti.

Il quadro che emerge è di un territorio in cui gli investigatori devono muoversi con attenzione chirurgica: un mondo dove la tecnologia è sia strumento del crimine sia strumento dell’indagine. Episodi come quello del parco del Mauriziano dimostrano che la risposta dello Stato non è immobile.
Ora resta da capire quante altre vittime potrebbero essere cadute nello stesso inganno. Resta da capire chi abbia davvero creato quei profili, chi abbia scattato o rubato quelle foto, chi abbia deciso di trasformare l’identità di una minorenne – reale o inventata – in un mezzo per estorcere denaro. E resta soprattutto una domanda: quanto è fragile il confine tra una chat di apparente leggerezza e una trappola che può rovinare una vita?
Una vicenda che, per molte ragioni, mette a nudo una vulnerabilità collettiva. E riporta al centro un monito chiaro: nel mondo digitale, dove tutto sembra possibile e immediato, il rischio più grande è credere che dietro uno schermo ci sia sempre qualcuno che dice la verità. Qui, invece, la verità era nascosta tra gli alberi del parco, pronta a emergere nel momento in cui una finta adolescente diventava la maschera di un’estorsione. E a ricordare che, talvolta, la realtà supera di molto l'immaginazione.
A volte tutto inizia con un messaggio innocente, quasi banale. Un saluto, un complimento, una frase breve che non promette nulla e non fa paura a nessuno. È nella normalità che si infilano le trappole migliori: quelle che non sembrano trappole. Una sera qualunque, dopo una giornata qualunque, quando la stanchezza pesa e la voglia di sentirsi visti supera la prudenza, basta un “come stai?” detto al momento giusto. E il gioco si avvia.
La conversazione prende forma, cresce, si scalda. Dall’altra parte c’è qualcuno che sembra interessarsi davvero, qualcuno che ti ascolta, che ti cerca, che ti desidera. E tu ti lasci andare, perché siamo fatti così: di carne, di fragilità, di bisogno di essere riconosciuti. Una foto. Un gesto impulsivo. Un dettaglio che dovrebbe restare privato e che invece diventa improvvisamente un’arma. Quando premi “invia”, ancora non lo sai. Non sai che la corda si è già stretta, che la porta si è chiusa, che dall’altra parte non c’era qualcuno che voleva conoscerti, ma soltanto qualcuno che voleva prenderti.
Il passaggio è brutale. Da un secondo all’altro, lo schermo si trasforma in una prigione luminosa. Non più frasi dolci, non più sorrisi digitali, ma minacce secche, crudeli, calibrate per colpire dove fa più male. “Ho salvato tutto.” – “Se non mi paghi, lo mando ai tuoi genitori.” – “Vuoi vedere la lista dei tuoi amici? La pubblico ovunque.”
Il ricattatore non ha volto, non ha scrupoli, non ha limiti. Sa che dietro ogni suo messaggio c’è un respiro che si spezza, una mano che trema, un pensiero che esplode in mille direzioni: vergogna, paura, panico. E si nutre proprio di questo.
La sextortion è questo: la trasformazione del desiderio in minaccia, della fiducia in catena, dell’intimità in arma. È una violenza che arriva attraverso un telefono, un computer, un social, ma che colpisce come un pugno allo stomaco nella vita reale. Nessuno è preparato. Nessuno pensa: “Succederà a me.” Eppure succede. Succede agli adulti, succede ai ragazzi, succede persino ai giovanissimi che ancora stanno imparando chi sono. Succede perché chi ricatta non sceglie per amore, ma per debolezza. Non perché vede una persona, ma perché vede una possibilità di potere.
In quei minuti, l’angoscia si allarga come un’ombra lunga. La vergogna diventa immensa: la paura che qualcuno scopra, che qualcuno giudichi, che qualcuno rida alle tue spalle. La mente immagina scenari catastrofici: il video inviato ai colleghi, la foto spedita alla famiglia, il nome sbattuto in chat, in gruppi, in scuole.
Il ricattatore lo sa. Per questo insiste. Per questo preme. Per questo minaccia.
Eppure, in mezzo a quel vortice di panico, c’è una verità che la sextortion non vuole farti vedere: non sei tu quello che sbaglia. Non sei tu l’imprudente, il colpevole, il responsabile. Sei la vittima di un reato, un reato serio, grave, diffuso, che colpisce ogni giorno migliaia di persone. E come tutte le violenze, ha una sola direzione: da chi fa del male verso chi lo subisce. Mai il contrario.
La trappola psicologica è potente. I ricattatori lo sanno: puntano sulla vergogna, sull’istinto di chiudersi, di non dirlo a nessuno, di provare a risolvere tutto da solo. Ma è proprio il silenzio la loro arma più forte. Nel silenzio prosperano, nel silenzio ricattano altri, nel silenzio continuano a minacciare.
Nel momento in cui parli, chiedi aiuto, denunci, qualcosa si incrina. Il potere che credevano di avere comincia a sgretolarsi.
E allora, quando il panico sembra vincere, servirebbe fermarsi un secondo. Respirare. Ricordare che non c’è vergogna nell’essere caduti in un inganno costruito apposta per la tua umanità. Che nessuno merita di essere ricattato per un gesto di fiducia o di vulnerabilità. Che nessuna immagine intima può definire chi sei.
Il ricattatore vuole che tu creda che la fine sia qui, ora, in quell’immagine minacciata. Ma non è così. È solo un capitolo buio, non la storia intera.
Per questo si parla. Per questo si denuncia. Per questo esistono polizia postale, associazioni, sportelli di aiuto. Perché chi ricatta teme la luce più di ogni altra cosa. E quando la luce arriva – un amico, un genitore, un collega, un agente – il castello del ricatto si affloscia.
Non c’è un esito perfetto, non c’è un antidoto alla vergogna. Ma c’è la possibilità reale, concreta, di uscire dal tunnel.
Ed è lì che la storia cambia. Dove prima c’era paura, può nascere il coraggio. Dove prima c’era silenzio, può nascere una voce. Dove prima c’era un ricattatore che sembrava onnipotente, si scopre che era solo un bugiardo con una tastiera.
La sextortion, alla fine, è una violenza che si nutre del buio. E ogni gesto di aiuto, ogni parola, ogni denuncia accende un po’ di luce.
E con la luce, anche la minaccia più feroce perde la sua forma.
Edicola digitale
I più letti
Ultimi Video
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.