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Cronaca
08 Novembre 2025 - 16:09
Lametta, sangue e paura nel carcere di Ivrea: “Istituto allo sbando, condizioni da terzo mondo”
Ancora un giorno di paura dietro le mura del carcere di Ivrea. Giovedì 6 novembre 2025, quello che dovrebbe essere un luogo di pena e rieducazione si è trasformato, ancora una volta, in un campo di battaglia.
Secondo l’OSAPP, il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, la situazione è ormai fuori controllo. Il Primo Piano del carcere, da mesi al centro di disordini, è tornato a trasformarsi in una polveriera: nella mattinata un detenuto di origini straniere ha aggredito un compagno di cella italiano, colpendolo al volto con una lametta. Nella colluttazione è rimasto ferito anche un agente, trasportato d’urgenza all’Ospedale di Ivrea e dimesso con una prognosi di quindici giorni.
Ma non è tutto. Nel pomeriggio, un altro detenuto — anche lui di origini straniere — ha perso completamente il controllo dopo un colloquio con lo psichiatra. Gli era stata negata una terapia aggiuntiva e, in risposta, ha ingerito detersivo per pavimenti, una batteria e persino una lametta. Portato al pronto soccorso, ha tentato di aggredire medici e agenti. Solo la prontezza e il coraggio della Polizia Penitenziaria hanno evitato una tragedia.
Eppure, a chi lavora dentro, non serve il cinema per conoscere l’orrore: basta un turno di servizio. Una volta rientrato in istituto, il detenuto ha continuato a minacciare il personale, dichiarando di voler “scaldare dell’olio e lanciarlo contro gli agenti”. Scene da film dell’orrore, ma reali.

E la verità è che il carcere di Ivrea è ormai un inferno. Non solo per la violenza, ma per le condizioni igieniche e strutturali che definire indegne è un eufemismo. Una recente relazione della Camera Penale “Vittorio Chiusano” del 10 luglio 2025, dopo una visita all’istituto, evidenzia che le camere di pernottamento sono prive dell’acqua calda e delle docce interne, mentre le docce sono collocate in spazi comuni all’interno delle sezioni. Gli infissi risultano “obsoleti ed arrugginiti” e le finestre schermate, con scarso apporto di luce naturale, “con conseguente ulteriore riduzione del grado di vivibilità”.
Il sovraffollamento è drammatico: nel giugno 2025 l’istituto ospitava 260 detenuti con una capienza ufficiale di 175 posti, pari a un tasso di sovraffollamento del 153%. Celle piccole, ambienti insalubri e promiscuità esasperata rendono ogni giornata una prova di sopravvivenza.
In definitiva, gli agenti lavorano in condizioni insostenibili, esposti quotidianamente a rischi elevatissimi e tensioni continue, in un contesto dove la dignità della pena — e di chi opera nell’istituto — è messa sistematicamente in discussione.
Nel comunicato diffuso l’8 novembre, il segretario generale dell’OSAPP, Leo Beneduci, non usa giri di parole: “È inaccettabile che il personale di Polizia Penitenziaria di Ivrea venga lasciato solo ad affrontare situazioni di tale pericolosità e degrado. Da tempo denunciamo la mancanza di sicurezza, di personale e di strutture idonee, ma le nostre segnalazioni cadono nel vuoto. Chiediamo un immediato intervento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia per ripristinare condizioni minime di legalità, sicurezza e dignità lavorativa.”
Una denuncia che sa di resa. Perché nel carcere eporediese ormai non funziona più nulla. Gli agenti lavorano in emergenza permanente, senza strumenti, senza personale sufficiente, circondati da tensione costante e minacce quotidiane.
L’OSAPP parla di “silenzio assordante delle autorità e delle istituzioni” e aggiunge una stoccata che fotografa la distanza tra chi governa e chi subisce: “Anche la politica tace. A parte qualche selfie.”
E mentre a Roma si discute di riforme e di rieducazione, a Ivrea si sopravvive. Gli agenti continuano a fare il loro dovere tra paura e rassegnazione, in un istituto dove la dignità — di chi lavora e di chi sconta la pena — è evaporata da tempo, come l’acqua calda dalle docce che non ci sono.
Insomma, più che una casa circondariale, quella di Ivrea sembra una discarica umana. E finché lo Stato continuerà a voltarsi dall’altra parte, la violenza resterà l’unica lingua parlata tra quelle mura.
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