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Cronaca
20 Ottobre 2025 - 19:01
Pesava 260 chili: lo Stato l’ha lasciato crepare in cella
Non è morto per caso, Francesco De Leo. È morto in carcere, ma molto prima di morire aveva smesso di essere davvero vivo. Da giorni il suo corpo chiedeva aiuto: un corpo di 260 chili, devastato dal diabete, prigioniero di se stesso e di un sistema che non ha saputo – o voluto – vedere oltre il reato.
Era arrivato nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino l’11 ottobre, dopo un pellegrinaggio di spostamenti tra Cuneo, Genova e Bra. Ovunque lo stesso copione: strutture inadeguate, celle troppo piccole, letti inadatti, promesse di assistenza mai mantenute. Aveva 51 anni e portava addosso la fatica di chi è diventato invisibile anche quando occupa tanto spazio.
Per dieci giorni ha dormito su una branda, in una cella che non poteva contenerlo. Solo stamattina – ironia amara del destino – è arrivato il letto bariatrico, quello che avrebbe dovuto garantirgli un minimo di dignità. Ma il suo cuore aveva già deciso di fermarsi.
Ufficialmente è un “arresto cardiaco”. Una formula burocratica, precisa e neutra. Ma dietro quelle due parole c’è molto di più: l’abbandono, la solitudine, la stanchezza di un uomo che da tempo non trovava più posto nel mondo. Francesco aveva un passato complicato, segnato da errori e da un’aggressione in una struttura sanitaria che lo aveva riportato dietro le sbarre. Da allora, il suo corpo era diventato un problema logistico più che una vita da curare.
Era stato spostato da un carcere all’altro come un pacco troppo pesante per essere gestito. Cuneo, Genova, Torino. Nessuna struttura in grado di offrirgli un letto adatto, un bagno accessibile, un’ora d’aria possibile. Tutto troppo stretto per un uomo come lui.
Il suo caso era noto: un detenuto obeso, diabetico, con gravi problemi di ritenzione idrica. Ma la macchina penitenziaria, lenta e impersonale, non ha mai trovato il tempo per adattarsi a lui. Si è adattato lui, finché ha potuto. Poi il cuore ha ceduto, in una cella del padiglione A, dove il silenzio pesa più delle sbarre.
Chi lo ha visto negli ultimi giorni racconta di un uomo rassegnato, consapevole di non farcela più. Era arrivato a Torino dopo l’ennesimo trasferimento, sperando in una sistemazione più umana. Invece ha trovato un letto che non c’era, un’assistenza che non arrivava e un sistema che lo ha lasciato morire da solo.
Il letto speciale – quello progettato per chi non può muoversi da solo – è stato consegnato solo poche ore dopo la sua morte. È l’immagine più crudele e simbolica di tutta la vicenda: la lentezza di uno Stato che arriva sempre troppo tardi, persino quando non c’è più nulla da fare.
Nel carcere delle Vallette, tra i corridoi del padiglione A, oggi resta il vuoto lasciato da un uomo ingombrante, fisicamente e simbolicamente. Perché Francesco De Leo rappresenta tutto ciò che il sistema penitenziario italiano fatica ad affrontare: la fragilità, la malattia, la dignità.
E mentre si apriranno le indagini per chiarire le cause della morte, resta una certezza: Francesco non doveva essere lì. Non in una cella inadatta, non senza assistenza, non in quelle condizioni. Il suo cuore si è fermato, ma il vero arresto – quello morale – era già avvenuto da tempo.
Insomma, è morto perché nessuno ha saputo fermare il lento scivolare verso l’abbandono. E perché, in fondo, in Italia si continua a morire di carcere anche quando si è ancora in vita.
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