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Cronaca

“Toni non si è mai fermato”: addio a Callegher, 92 anni vissuti in sella alla vita

Dal Trevigiano al Canavese, una storia lunga un secolo e scritta tutta a pedali: il ciclismo piemontese piange il suo eterno ragazzo

“Toni non si è mai fermato”: addio a Callegher, 92 anni vissuti in sella alla vita

“Toni non si è mai fermato”: addio a Callegher, 92 anni vissuti in sella alla vita

Dalla pianura veneta alle salite del Nivolet: una vita a pedali, tra sudore, amicizia e passione. Quante vite può contenere una bicicletta? Nel caso di Antonio “Toni” Callegher, tutte. Ne aveva avute tante quante le stagioni che aveva attraversato in novantadue anni di esistenza, tutte vissute in equilibrio su due ruote. È scomparso improvvisamente, lasciando un vuoto enorme nel cuore del ciclismo piemontese e in quello di chi, tra Rivara e Forno Canavese, lo aveva sempre visto come un punto fermo, un esempio, un sorriso familiare tra le salite del Canavese.

Era nato l’11 gennaio 1933 nel Trevigiano, e amava ricordare con orgoglio che era venuto al mondo “lo stesso giorno e lo stesso mese di Franco Balmamion, ma sette anni prima”. Quasi a voler dire che la bicicletta, in qualche modo, ce l’aveva nel destino. Era arrivato nel Torinese nei primi anni Cinquanta, quando il boom economico non aveva ancora cancellato l’odore dell’officina, e la bicicletta era ancora libertà, sudore, e sogno. A Forno Canavese aveva trovato casa, amici e soprattutto strade da percorrere.

Callegher era uno di quelli che, quando montava in sella, non pensava mai alla vittoria. Pensava solo a pedalare. Ma i risultati arrivavano lo stesso, frutto della costanza e di una passione feroce. Aveva indossato le maglie della Vigor di Ivrea e dell’Ucab di Biella, prima di approdare, nel 1958, alla gloriosa Ucat di Torino, la squadra che sarebbe diventata la sua seconda famiglia. Con quei colori aveva conquistato tantissimi piazzamenti e alcuni successi che restano nella memoria collettiva, come la Torino–Biella del 1958 e il Campionato piemontese di ciclocross del 1960.

Era un ciclismo diverso, quello di allora. Senza ammiraglie lucide, senza sponsor milionari, ma con tanta polvere, fame e cuore. Un ciclismo fatto di uomini veri, che dopo la corsa tornavano a lavorare, con le mani ancora sporche di catrame e la schiena indolenzita. Callegher apparteneva a quella razza lì. Quella dei ciclisti che non smettevano mai, nemmeno dopo aver smesso.

A metà degli anni Sessanta appese la bici da corsa, ma non smise mai di pedalare. Continuò come dirigente, appassionato, memoria vivente di un’epoca. Era il tipo che si presentava alle manifestazioni con la stessa umiltà di sempre, salutava tutti, ricordava nomi, volti, aneddoti. Non serviva che parlasse di sé: bastava guardarlo, bastava vederlo ancora in sella per capire che non aveva mai smesso di vivere la bicicletta come un’estensione del corpo e dell’anima.

E infatti, fino a pochi giorni prima della sua scomparsa, Toni Callegher era ancora lì, con la sua bici a pedalata assistita, ad affrontare le rampe che portano al Colle del Nivolet. Il vento in faccia, la montagna davanti, e la stessa luce negli occhi di sempre. Al termine di ogni uscita, mandava qualche foto agli amici del gruppo, sorridente, fiero come un ragazzino. Perché dentro di lui, a dispetto dei novant’anni suonati, il ragazzo non se n’era mai andato.

Aveva attraversato i decenni come si attraversano le tappe di una corsa lunga e faticosa: con pazienza, con ironia, con la leggerezza di chi sa che la vita, in fondo, è tutta una lunga salita da affrontare col ritmo giusto. E quando la strada spiana, bisogna solo godersi il paesaggio.

Con la sua morte, il ciclismo piemontese perde uno dei suoi personaggi di spicco, ma più ancora perde un modo di essere ciclista, fatto di silenzio, rispetto e passione. Di quelli che non servono applausi per sentirsi vivi, perché ogni pedalata è già un applauso alla vita stessa.

A Forno Canavese lo ricorderanno come un uomo gentile, riservato, ironico. Uno di quelli che salutava per primi, che non parlava mai male di nessuno, che raccontava le sue corse come si raccontano le favole. Non per nostalgia, ma per gratitudine.

Hai vissuto la tua passione fino all’ultimo, Toni. E forse è proprio così che si vince davvero: non arrivando primi, ma non fermandosi mai.

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