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Cronaca

Cannabis light, blitz e sequestri a Torino: il decreto sicurezza affossa un intero settore

Ventiquattro ore di controlli, venti chili di infiorescenze sequestrate, imprenditori indagati e un comparto con trecento aziende e novecento lavoratori lasciato senza regole chiare. Mentre a Torino scattano i sigilli, in altre città i tribunali dissequestrano

Cannabis light, blitz e sequestri a Torino: il decreto sicurezza affossa un intero settore

Squadra mobile

Nel Torinese la questione della cannabis light è diventata un braccio di ferro che non sembra destinato a risolversi in tempi brevi. Nonostante i controlli serrati e i sequestri delle ultime ore, in diversi negozi la canapa continua a essere venduta, in un clima di incertezza e paura che pesa ogni giorno di più su chi lavora nel settore. Lunedì 22 settembre un blitz della squadra mobile di Torino ha colpito due attività, mettendo i sigilli e sequestrando le infiorescenze custodite nei magazzini. Gli imprenditori coinvolti sono finiti sotto inchiesta per detenzione a fini di spaccio, nonostante avessero già sospeso la vendita delle infiorescenze proprio per evitare guai giudiziari. Il problema, infatti, è un altro: il recente decreto sicurezza ha reso illegale la detenzione della sostanza ma non ha chiarito in alcun modo come dovesse essere smaltita. Così, i commercianti si sono trovati con prodotti improvvisamente fuorilegge e con il rischio concreto di finire indagati semplicemente per averli in magazzino.

cannabis

L’operazione torinese non è isolata. In questi giorni la polizia ha sequestrato complessivamente circa venti chili di infiorescenze in diversi punti vendita tra Torino e provincia, portando via anche oli, creme e altri derivati della canapa che fino a poche settimane fa si trovavano liberamente sugli scaffali. L’applicazione del decreto sicurezza è diventata il nuovo spartiacque: ciò che prima era tollerato o comunque considerato legale, oggi comporta l’accusa di spaccio. Una trasformazione normativa che lascia attoniti gli operatori del settore, molti dei quali non hanno abbassato la serranda ma vivono con la costante paura di un controllo improvviso.

Il paradosso è evidente: la legge punisce, ma non dice come eliminare un prodotto che fino a ieri era perfettamente in regola. Non può essere smaltito autonomamente, non può essere gettato tra i rifiuti, e senza linee guida precise il risultato è che centinaia di commercianti si ritrovano seduti sopra una polveriera legale. È in questo vuoto normativo che si inseriscono sequestri e denunce, con accuse pesanti come la detenzione a fini di spaccio che finiscono per colpire imprenditori regolari, titolari di attività che pagano tasse e contributi, ma che ora rischiano di vedere anni di investimenti polverizzati.

La storia non è nuova. Già in primavera la procura di Torino aveva condotto una maxi inchiesta su 49 indagati, conclusasi con l’archiviazione totale. In quel caso, le analisi avevano dimostrato che i prodotti sequestrati non avevano effetti droganti e non potevano dunque essere assimilati a sostanze stupefacenti. Oggi lo scenario potrebbe replicarsi: i sequestri scattano, i procedimenti vengono avviati, ma il finale in tribunale rischia di assomigliare a quello della scorsa stagione, con archiviazioni e dissequestri.

A rendere ancora più confuso il quadro è il fatto che in altre parti d’Italia diversi tribunali stiano già andando in direzione opposta, restituendo la merce e di fatto disapplicando l’articolo 18 del decreto sicurezza. Questo significa che mentre a Torino si sequestra e si indaga, altrove si restituisce e si archivia, creando un mosaico contraddittorio che lascia il settore senza punti di riferimento. È come se la legge cambiasse significato a seconda della città in cui ci si trova: a Torino sei un potenziale spacciatore, a Firenze ti ridanno la merce, a Napoli ti archiviano tutto. Un’Italia a macchia di leopardo, dove a fare la differenza non è la sostanza sequestrata, ma l’interpretazione del tribunale di turno.

Le conseguenze, però, non si fermano ai singoli procedimenti. In Piemonte operano circa trecento aziende legate alla filiera della canapa, che danno lavoro a più di novecento persone. Realtà imprenditoriali che avevano scommesso su un comparto in crescita, portando occupazione e versamenti fiscali regolari, oggi rischiano di ritrovarsi travolte da una normativa che sembra dettata più da logiche politiche che da reali esigenze sociali. Ogni nuovo sequestro non è solo un problema giudiziario, ma anche un colpo all’economia locale e alla sopravvivenza di centinaia di famiglie.

Ed è qui che entra in gioco la parte più grottesca: lo Stato che prima ha incoraggiato e incassato, ora si presenta col manganello. Le tasse le hanno volute, e le hanno incassate puntualmente anche quest’anno. Poi, improvvisamente, la stessa mano che raccoglieva le imposte ha deciso che quei soldi derivavano da un’attività criminale. È l’ennesima dimostrazione di come il legislatore riesca a inventarsi norme che non solo creano caos, ma finiscono per delegittimare la stessa idea di certezza del diritto. Perché se un commerciante paga le tasse su un prodotto, come può il giorno dopo essere trattato da criminale per lo stesso prodotto?

La sensazione è che il copione sia destinato a ripetersi: sequestri, indagini, denunce e chiusure temporanee da un lato, archiviazioni e restituzioni dall’altro. Una ruota che gira sempre uguale, alimentata da decreti scritti in fretta, senza pensare alle ricadute concrete. In mezzo, un intero settore sospeso, costretto a navigare a vista in un mare di incertezze, con il rischio che ogni giorno l’onda più alta sia quella che travolge definitivamente attività e posti di lavoro. Insomma, ancora una volta una legge nata per garantire ordine rischia di generare solo disordine, e a pagare non sono certo i grandi cartelli della droga, ma i piccoli commercianti che avevano creduto nella canapa come occasione legale, pulita e sostenibile.

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