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11 Settembre 2025 - 00:34
Da Ciriè a Torino, l’impero di Postalcoop sotto sigilli: 38 indagati e locali sequestrati
Era ancora attivo, fino a ieri, il sito ufficiale con cui Postalcoop si raccontava come un’impresa solida, affidabile, capace di gestire con efficienza outsourcing, logistica, servizi postali e facility. Una vetrina curata, che parlava di investimenti nella formazione del personale, attenzione ai clienti, standard qualitativi elevati e soluzioni integrate. Dietro quelle parole, però, secondo la magistratura, si nascondeva una realtà molto diversa: una struttura complessa, alimentata da contratti fittizi e fatture per operazioni inesistenti, che avrebbe consentito negli anni un giro milionario di profitti illeciti. E proprio per questo la società, con sede legale a Ciriè, è finita ieri al centro di una maxi-inchiesta della procura di Torino che ha portato al sequestro di beni e asset per 26,5 milioni di euro.
L’operazione, battezzata “Epicentro”, è stata condotta dal Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Torino e coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri insieme al pm Giulia Marchetti. A concedere i sequestri è stata il gip Lucia Minutella, che nelle carte parla di un sistema «illecito, reiterato e collaudato», tanto da richiedere misure immediate per impedire che i beni potessero continuare a essere utilizzati. L’inchiesta coinvolge due società principali: Postalcoop e CargoBroker, quest’ultima con sede a Torino e già in liquidazione. Entrambe, secondo l’accusa, avrebbero messo in piedi un meccanismo basato sulla somministrazione illecita di manodopera mascherata da appalti di servizio.
Lo schema, ricostruito dagli investigatori coordinati dal colonnello Alessandro Langella, è preciso: una catena di società di comodo – le cosiddette “serbatoio” – che emettono fatture false nei confronti di una “società filtro”, in questo caso Postalcoop. La società filtro, a sua volta, fornisce ai committenti personale a basso costo, aggirando di fatto i vincoli di legge. Così facendo, i costi contributivi e previdenziali restano sulle spalle delle società serbatoio, che però non li versano mai; Postalcoop realizza un risparmio fiscale significativo grazie ai crediti IVA maturati e a un utile d’esercizio artificiosamente abbattuto; i committenti, infine, ottengono manodopera a tariffe ribassate, con ordini impartiti come se i lavoratori fossero dipendenti diretti. Un sistema in cui tutti guadagnano, tranne i lavoratori e lo Stato. Il volume complessivo delle fatture contestate supera i cento milioni di euro.
Gli indagati sono 38. Le accuse spaziano dalla dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti all’omesso versamento di IVA, dall’intermediazione illecita alla vera e propria associazione per delinquere. Al vertice, secondo la procura, ci sarebbe Daniele Goglio, considerato l’amministratore di fatto di Postalcoop, già noto alle cronache giudiziarie per vicende passate. Le carte descrivono una regia che dal 2016, anno in cui l’azienda cambia ragione sociale trasformandosi da cooperativa a srl, avrebbe permesso di consolidare e perfezionare il meccanismo illecito. Non a caso è proprio da allora che il fatturato della società ha cominciato a crescere in maniera esponenziale, arrivando a stringere contratti con colossi internazionali della logistica.
Il fascicolo della procura cita anche i rapporti con grandi player del settore: SDA, GLS e società riconducibili al gruppo Amazon. Per i magistrati, quelle società sarebbero state destinatarie delle prestazioni, beneficiando indirettamente del sistema di appalti fittizi. In alcuni casi, le contestazioni parlano esplicitamente di fatture che avrebbero permesso ad Amazon Italia Transport srl di evadere l’IVA tra il 2019 e il 2022. L’azienda, interpellata, ha smentito rapporti di collaborazione con Postalcoop, ma i documenti sequestrati raccontano altro. Il quadro è comunque chiaro: i committenti, pur senza essere colpiti dai sequestri, restano parte integrante del meccanismo che ha portato all’indagine.
I sigilli hanno riguardato anche una lunga lista di locali e attività commerciali. Lo storico Caffè Norman, all’angolo tra via Pietro Micca e piazza Solferino, è finito in amministrazione giudiziaria. Stessa sorte per due ristoranti Suki Sushi, uno in via Rodi e l’altro in via Amendola, per il ristorante Wallpaper in piazza Gran Madre, per il Lagrange in via Lagrange e per il Sushi del Manzo tra via Roma e via XX Settembre. Non solo: anche il Parkamion di Settimo Torinese e un bar in via Po risultano coinvolti. In alcuni casi i sequestri non hanno colpito direttamente i locali, ma le quote societarie riconducibili a Postalcoop. Una mappa di partecipazioni che mostra come la società di Ciriè avesse progressivamente esteso la propria influenza anche al settore della ristorazione torinese.
Il tribunale ha però stabilito che tutte le attività commerciali resteranno aperte, con l’obiettivo di salvaguardare i livelli occupazionali. Una scelta di equilibrio: da una parte congelare i beni per evitare che venissero dispersi, dall’altra impedire che decine di lavoratori finissero immediatamente senza reddito. Il gip Minutella è stata netta: il pericolo di reiterazione dei reati è concreto e «non solo probabile, ma certo».
L’inchiesta ha toccato anche figure già note al mondo giudiziario. Tra gli indagati c’è Francesco Bafunno, figlio di Pasquale, già coinvolto in altre indagini legate alla ’ndrangheta calabrese. Accanto a lui, altri professionisti ed ex manager del settore logistico, che secondo l’accusa si sarebbero riciclati all’interno del sistema di Postalcoop. Una rete eterogenea, con competenze tecniche e legami economici, capace di trasformare un’azienda apparentemente sana in un ingranaggio di un meccanismo fraudolento.
Il caso ha suscitato reazioni anche sul fronte sindacale. La Filt Cgil Torino e Piemonte ha sottolineato che quanto emerso non fa che confermare denunce avanzate da tempo: il settore della logistica sarebbe permeato da illegalità diffusa, con appalti e subappalti gestiti al ribasso e lavoratori utilizzati come variabile di risparmio. Per i sindacati, la priorità adesso è garantire tutele, stipendi regolari e continuità occupazionale. Viene chiesto un intervento immediato delle istituzioni, ma anche una presa di responsabilità diretta da parte delle aziende committenti. Perché se il sistema ha retto fino a oggi, è anche grazie alla disponibilità dei grandi gruppi a chiudere un occhio pur di ridurre i costi.
Al di là dell’inchiesta giudiziaria, il caso Postalcoop racconta la parabola di un’impresa che in quasi quarant’anni ha saputo trasformarsi e crescere, passando dai servizi postali e di recapito al controllo di locali di pregio nel centro di Torino. L’azienda vantava una struttura articolata: sede legale a Ciriè, stabilimento e magazzino a Verolengo, numero verde dedicato, uffici commerciali e una rete capillare di servizi che andavano dalla posta ordinaria alla raccomandata, dalla distribuzione “last mile” alla manutenzione di impianti sportivi, dalle pulizie tecniche alla gestione di aree verdi. Una realtà che si presentava come partner affidabile di privati, aziende e pubbliche amministrazioni. E che invece, oggi, si ritrova a essere additata come emblema di un sistema distorto.
Il sequestro da 26,5 milioni non chiude la vicenda, ma rappresenta un passaggio cruciale. La magistratura torinese ha voluto colpire al cuore un modello che, se confermato, avrebbe alterato la concorrenza, danneggiato lo Stato e sfruttato migliaia di lavoratori. Gli sviluppi giudiziari chiariranno le singole responsabilità, ma il quadro che emerge è già drammatico: un settore vitale come quello della logistica, cresciuto con l’esplosione delle consegne a domicilio, appare ancora una volta segnato da opacità e scorrettezze.
Postalcoop, che fino a ieri si raccontava come eccellenza piemontese dei servizi integrati, è oggi sinonimo di indagine, sequestri e sospetti. E la città di Torino, con i suoi bar storici e i suoi ristoranti finiti sotto sigilli, scopre che dietro a un cappuccino o a un piatto di sushi poteva celarsi il tesoro di un’azienda che aveva fatto della regolarità la sua vetrina e dell’illegalità, secondo l’accusa, la sua sostanza.
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