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Cronaca
02 Luglio 2025 - 12:01
Tragedia a Verona: bimbo di due anni muore dopo incidente in piscina
Non ce l’ha fatta. Il bambino di due anni che lo scorso sabato 28 giugno era stato soccorso dopo essere caduto in una piscina a Pacengo di Lazise, è ufficialmente deceduto. La morte cerebrale è stata dichiarata nelle scorse ore all’ospedale di Borgo Trento, dove il piccolo era ricoverato da giorni in condizioni disperate. Una notizia che ha spezzato il cuore di un’intera comunità e che riapre una ferita che non smette mai di sanguinare: quella delle tragedie silenziose, che colpiscono all’improvviso, nel pieno dell’estate, mentre tutto sembra sereno.
Il bambino si trovava con i genitori in vacanza presso un residence turistico della zona, una struttura tranquilla, immersa nel verde, poco distante dal lago. Una manciata di minuti, forse solo secondi di distrazione, sono bastati per trasformare una giornata qualunque in un incubo senza ritorno. Il piccolo è finito in acqua, non si sa con esattezza come. Quando i genitori si sono accorti dell’accaduto, era già privo di sensi.
Sul posto è intervenuto con rapidità il personale del SUEM 118, che ha cercato di rianimarlo. Il trasporto in codice rosso all’ospedale Borgo Trento di Verona è stato immediato. Il bambino è stato ricoverato nella terapia intensiva pediatrica, dove è stato sottoposto a tutte le cure disponibili, inclusa una terapia di supporto massimale. Ma il danno era già esteso, irreversibile.
Dopo due giorni di lotta in silenzio, i medici hanno avviato la procedura prevista dalla legge per la dichiarazione di morte cerebrale: sei ore di monitoraggio, due riunioni della commissione specialistica. Al termine, non c’erano più dubbi. Il cuore del piccolo continuava a battere grazie alle macchine, ma la sua mente non c’era più.
Ogni anno, in estate accadono queste tragedie. Serve maggiore attenzione
Alla famiglia, distrutta, è stata comunicata la notizia con tatto e con dolore condiviso. Il reparto ha messo a disposizione psicologi e personale specializzato, in un momento che nessuna madre e nessun padre dovrebbe mai vivere. I sanitari hanno parlato di un dolore che si taglia con il silenzio, di una tragedia che ha colpito tutti, non solo chi ha perso un figlio, ma anche chi ha provato in ogni modo a salvarlo.
E mentre la comunità di Verona si stringe attorno a questi genitori devastati, la cronaca nazionale racconta un altro episodio sfiorato, che lascia senza fiato. Solo poche ore fa, a Chivasso, al Palalancia, un bambino di tre anni è stato visto annaspare in piscina, in evidente pericolo di annegamento. Un operatore è intervenuto in tempo, sollevandolo dall’acqua e chiamando i soccorsi. Trasportato al Regina Margherita di Torino, il piccolo ora sta bene. Ma se quell’intervento fosse arrivato anche solo un minuto dopo, oggi staremmo raccontando un’altra tragedia.
Ecco perché questa morte non può rimanere solo una cronaca di dolore. Deve trasformarsi in una denuncia culturale, in un monito collettivo che interroga tutti: gestori, genitori, amministratori, istituzioni. Le piscine – che siano private, condominiali o pubbliche – sono luoghi a rischio per i bambini piccoli. Il loro fascino è pari solo alla loro pericolosità, specie in assenza di barriere, supervisioni adeguate e protocolli di sicurezza.
La verità è che, in Italia, le norme sulla sicurezza nelle piscine private sono spesso blande, e affidate alla responsabilità soggettiva dei gestori. I residence, gli agriturismi, le case vacanze con piscina non sono obbligati – salvo rare eccezioni – a dotarsi di personale di salvataggio. E quando si parla di bambini sotto i sei anni, anche pochissimi centimetri d’acqua possono rivelarsi fatali.
Non basta dire “bisogna stare attenti”. Serve molto di più.
Serve che chiunque gestisca uno spazio con acqua accessibile ad ospiti o clienti adotti sistemi di sicurezza: cancelli di protezione, coperture, allarmi sonori in caso di caduta, telecamere. Serve che ogni genitore, zio o nonno, sappia che la supervisione deve essere costante e a distanza ravvicinata. Anche quando il bambino sa galleggiare, anche se c’è il bracciolo o la ciambella. Anche se “sono solo due minuti”.
Serve che i bambini frequentino corsi di acquaticità sin da piccolissimi, perché il corpo e la mente devono imparare a riconoscere l’acqua e a reagire. E serve che le strutture turistiche formino il proprio personale almeno ai rudimenti del primo soccorso e dell’uso del defibrillatore, che in certi casi fa la differenza.
Serve, soprattutto, che quando accade una tragedia come quella di Lazise, nessuno parli di fatalità. Perché la fatalità non è un alibi. La fatalità non cancella il dovere di prevenzione. La fatalità, troppo spesso, è il nome gentile che diamo a un’assenza di responsabilità.
In un’estate che si annuncia calda, affollata e spensierata, non possiamo permetterci altri silenzi pieni di lacrime. Quel bambino di due anni, che non tornerà più, non è solo “una vittima”. È un avvertimento, una richiesta disperata di attenzione.
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