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Esplosione
30 Giugno 2025 - 16:12
Il tonfo sordo, lacerante, di qualcosa che esplode. Una bomba, forse. Oppure no. Ma il rumore è quello. Un suono che squarcia la notte e si infila nei sogni, li trasforma in incubi. Poi, un grido. Una voce femminile che lacera l’aria come un coltello: “Scappate! Il palazzo prende fuoco!”. E, subito dopo, i lamenti. Quelli lontani, strazianti, dei cani. Come se anche loro sapessero che qualcosa di irreparabile sta accadendo.
Sono le 3:15 del mattino quando in via Nizza 389, a Torino, la tranquillità di una notte d’estate viene squarciata da uno scoppio improvviso. Un appartamento al piano alto esplode, generando un violento incendio che in pochi istanti si propaga anche agli alloggi vicini. Le fiamme si alzano verso il cielo, inghiottendo balconi, tende, finestre. Il buio della notte si trasforma in luce sinistra. Il fuoco fa il suo corso, senza pietà.
La finestra, spalancata per il caldo della sera, ora è una cornice d'inferno. Di là, al di là del vetro, le fiamme si arrampicano furiose lungo la facciata. Garriscono, schizzano verso l’alto, divorano tutto. Il cielo si tinge di rosso. E la strada sotto, un attimo prima normale, si trasforma in un campo di guerra: otto squadre dei vigili del fuoco, arrivate da ogni parte di Torino, lavorano senza sosta, tra i detriti, le lamiere contorte, le auto annerite, i pezzi di vita inceneriti.
Gli occhi restano immobili. Impietriti. Come se non appartenessero più a un corpo, ma solo al terrore. La mente cerca una logica, un appiglio, qualcosa che restituisca senso. Allora ti convinci che sei lucido, che puoi agire. E agisci. Ti vesti in fretta, prendi le prime cose che trovi, scendi. Il cuore batte forte, ma i piedi si muovono. L’istinto ha preso il sopravvento sulla ragione.
Ma quando arrivi in strada, la realtà ti schiaffeggia. Ti toglie l’illusione di essere forte. Ti denuda. Perché lì, tra le urla e il fumo, non sei altro che un uomo. Fragile. Minuscolo. Impotente di fronte a qualcosa che non capisci.
La gente si affolla, chi urla, chi piange, chi cerca qualcuno. C’è chi maledice il destino, chi punta il dito, chi invoca un responsabile. Perché il dolore ha bisogno di colpevoli. Ha bisogno di una spiegazione. Di un perché.
Intanto i soccorsi estraggono persone dalle scale annerite e dai pianerottoli divorati dalla cenere: tre adulti e due ragazzi vengono recuperati e trasportati d'urgenza in ospedale. Uno dei due giovani è in condizioni gravi, con ustioni importanti. Ma tra le urla e il rumore degli idranti, arriva la notizia che nessuno vorrebbe sentire: c’è un morto. Un corpo è stato trovato tra le macerie. Carbonizzato, irriconoscibile. È la prima, terribile vittima di questa notte.
E allora tutto cambia. Perché finché c’è vita, c’è speranza. Ma la morte no. La morte è definitiva. È il punto di non ritorno. È il dolore che si trasforma in lutto. È il silenzio che cade come una pietra sul cuore di chi resta.
Poi lo vedi. Quello sguardo. Quello di una madre, rimasta lì, con gli occhi in su. Fissi sull’ultimo piano. “Mio figlio è lì sopra”, sembra dire senza parlare. Le lacrime le rigano il volto, ma non si muove. Non può muoversi. Come se stesse trattenendo il palazzo con la sola forza del pensiero.
L’aria è satura. Il fumo entra nei polmoni come una condanna. La gola brucia. Il respiro si fa corto. Intorno, silenzio. Non un silenzio qualunque, ma quello dei funerali prima della bara. Il silenzio delle preghiere sussurrate, delle mani strette, dei “ti prego, ti prego” pronunciati a denti stretti.
Poi il cielo si apre. E arrivano loro. I vigili del fuoco. I caschi luccicanti, le tute gialle e nere, i volti concentrati. Sono angeli, caduti dal cielo. Scendono come guerrieri dell’impossibile, armati di lance d’acqua, decisi a sfidare le fiamme. Ma il fuoco è una bestia che non si lascia domare facilmente. E il tempo, lì, si dilata. Ogni secondo è eterno. Ogni gesto è una battaglia. Ogni scalino, un rischio. Li guardi salire. E preghi che ce la facciano.
Alle ore 11:00, si attendono aggiornamenti ufficiali sull’avanzamento delle operazioni. Ma intanto, i vigili sono ancora lì, dentro quell’inferno, mentre il quartiere resta fermo, sospeso, col fiato corto e gli occhi pieni di cenere.
Alla fine, tutto si spegne. Le fiamme si affievoliscono. Il fumo continua a salire, lento, denso, dal ventre annerito dell’edificio. Ma il silenzio che segue non è liberazione. È solo vuoto. La speranza svanisce con il fumo. Resta solo ciò che il fuoco non ha potuto bruciare: il dolore. E quelle urla, le ultime, le più vere. Quelle di una madre che ha perso tutto. E che ora, nell’aria grigia della mattina, fa risuonare il suono più antico e disperato del mondo: quello del suo cuore spezzato.
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