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Cronaca

Diddy mostro d’America: sesso, violenza e terrore dietro il re dell’hip hop

Violenza, sesso, ricatti e paura: il processo a Sean Combs scuote l’America e svela il lato oscuro del successo. Dopo sette settimane di testimonianze, la giuria si ritira. In gioco non c’è solo il futuro di un uomo, ma quello di un’intera cultura

Diddy mostro d’America: sesso, violenza e terrore dietro il re dell’hip hop

New York, 27 giugno 2025. La giuria ha lasciato l’aula in silenzio, lo sguardo teso, mentre Sean “Diddy” Combs, uno degli uomini più influenti dell’industria musicale americana, restava immobile, lo sguardo fisso nel vuoto. Dopo sette settimane di testimonianze, video scioccanti, rivelazioni esplosive e tensioni palpabili, il processo che potrebbe distruggere per sempre la reputazione del fondatore della Bad Boy Records si è concluso con le arringhe finali. Ora la parola passa ai giurati, che da lunedì saranno chiamati a decidere se dietro i riflettori, i Grammy, i miliardi di dollari e gli abiti firmati, si celasse un sistema criminale costruito su sesso, violenza e paura.

L'accusa è pesantissima: traffico sessuale, cospirazione per racket, violenza fisica e psicologica, e la gestione di un’organizzazione dedita alla sottomissione di donne giovani, molte delle quali entrate nella sua orbita con la promessa di una carriera e finite, invece, prigioniere in una rete fatta di lusso e terrore. Secondo la procura federale, Combs avrebbe costruito un vero e proprio “regno di orrore”, sfruttando il suo potere, la sua ricchezza e la sua fama per piegare volontà e corpi. Nelle parole del procuratore, si tratterebbe di un impero parallelo, fatto di “feste sessuali rituali” – le famigerate “freak-offs” – dove nulla era consensuale, tutto era controllato. Droga, minacce, telefoni sequestrati, video compromettenti usati per il ricatto, collaboratori che chiudevano un occhio, o entrambi.

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La difesa ha tentato di ribaltare l’immagine. L’avvocato Marc Agnifilo ha ammesso senza esitazioni che Diddy non è un uomo perfetto, ha riconosciuto “comportamenti riprovevoli”, anche “violenti”. Ma ha negato con fermezza che si sia trattato di un sistema criminale: “Il mio assistito è colpevole di essere ricco, famoso, eccentrico. Non è un criminale. E le relazioni di cui parliamo, per quanto disturbanti possano apparire a chi è fuori da quel mondo, erano consensuali. Parliamo di un ambiente adulto, libero, non di una setta”. Per la difesa, si tratta di un processo costruito a tavolino, in un contesto dove le presunte vittime avrebbero un interesse economico a raccontare certe versioni, dal momento che quasi tutte hanno avviato o minacciato cause civili milionarie.

Ma è difficile sostenere questa narrativa quando in aula scorrono i fotogrammi di un video del 2016, diventato l’emblema di questo processo. Nelle immagini, trasmesse ai giurati su richiesta dell’accusa, si vede **Sean Combs colpire con violenza la sua compagna di allora, la cantante Cassie Ventura, in un corridoio d’albergo. Un pugno secco. Lei cade. Lui si volta e se ne va. Nessun audio. Nessuna parola. Solo la brutalità di un gesto che ha gelato la corte e che ha infranto, forse definitivamente, l’immagine patinata del “re del pop-rap”.

Cassie, già al centro della scena giudiziaria lo scorso anno, quando intentò una causa civile poi ritirata dopo un accordo milionario, è diventata suo malgrado la figura simbolo del processo. Ma non è la sola. Decine le testimoni. Una delle più toccanti è stata “Jane”, una giovane donna entrata nell’orbita di Combs a vent’anni. La sua testimonianza, straziante, ha attraversato momenti di panico, umiliazioni, minacce. “Mi offrivano droga fin dal primo giorno. Dicevano che serviva per entrare nel giro. Poi arrivavano le richieste. Se dicevi no, eri fuori. Ma se dicevi sì, non potevi più uscire”. Una frase, la sua, che ha risuonato in aula come una condanna morale: “Non era sesso, era potere. Io ero solo un trofeo, una cosa da esibire e da spezzare quando non serviva più”.

I pubblici ministeri hanno ricostruito una vera e propria struttura piramidale. Assistenti, guardie del corpo, autisti, manager: tutti avrebbero contribuito a mantenere il silenzio, a garantire la segretezza, a favorire quello che è stato descritto come “un circuito infernale di abuso e intimidazione”. L’FBI ha parlato di una “organizzazione para-criminale”, capace di operare indisturbata per vent’anni, coperta dalla celebrità e dalla complicità ambientale del mondo dello spettacolo.

D’altro canto, la difesa ha puntato su un concetto semplice ma potente: se tutto era così terribile, perché sono rimaste? Perché tornavano? Perché firmavano accordi? Perché non denunciavano prima? La risposta dell’accusa è stata altrettanto tagliente: la paura. La vergogna. L’isolamento. E soprattutto, la consapevolezza che nessuno avrebbe creduto a una ragazza qualunque contro uno degli uomini più potenti della musica americana.

Ora la giuria dovrà decidere se credere a Diddy, imprenditore visionario, produttore geniale, filantropo e mentore. O a quella lunga scia di donne che raccontano, con voci spezzate e sguardi persi, una verità completamente diversa: quella di un uomo che dietro la maschera brillante della celebrità avrebbe nascosto una vocazione al dominio assoluto. Se condannato, Combs rischia da 15 anni all’ergastolo. E con lui potrebbe crollare un intero immaginario collettivo fatto di videoclip, lustrini e champagne.

Ma questo processo non è solo su di lui. È un processo a un’epoca. A un sistema. A un mondo dove il denaro e il successo aprono tutte le porte, e dove le vittime, spesso, restano chiuse dentro. Da lunedì, i giurati parleranno. Ma fuori dal tribunale, l’America sta già pronunciando il suo verdetto. E potrebbe essere impietoso.

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