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09 Maggio 2025 - 09:58
Il conte col machete: la verità su Pietro Costanzia e l’aggressione che ha sconvolto Torino
Una lettera, una gamba tagliata, un nobile venticinquenne con un machete in mano. Sembra la trama di un noir d’altri tempi e invece è tutto vero. È la cronaca di un processo che sta scuotendo Torino, dove Pietro Costanzia di Costigliole, rampollo di una famiglia aristocratica piemontese, è accusato di tentato omicidio aggravato per aver assalito e mutilato un coetaneo, Oreste Borelli, la sera del 18 novembre 2023, in via Panizza, nel quartiere Mirafiori. Un’aggressione brutale, feroce, che ha lasciato la città senza fiato e ha tolto per sempre a un ragazzo la possibilità di camminare su due gambe.
Per mesi Costanzia ha scelto il silenzio. Niente dichiarazioni, nessun commento, nessun tentativo di spiegare, giustificare o chiedere perdono. Poi, improvvisamente, il colpo di scena. Durante l’ultima udienza, il suo avvocato Wilmer Perga consegna al giudice una lettera scritta di suo pugno: "Mi dispiace molto per quanto accaduto — non volevo né ucciderlo né ferirlo, frequentavo un certo ambiente, ora invece mi curo e sto meglio." Parole scarne, che suonano come una confessione tardiva o una manovra studiata, a seconda di chi le legge. Un gesto che ha diviso l’aula: per alcuni, finalmente un segnale umano; per altri, un tentativo disperato di alleggerire la propria posizione a processo inoltrato.
Ma la ricostruzione dei fatti lascia poco spazio all’interpretazione. Secondo l’accusa, Costanzia ha agito con premeditazione, in una vera e propria spedizione punitiva. Ha colpito Borelli con un machete, con violenza inaudita, tranciandogli di netto una gamba. Sullo sfondo, gelosie personali, ambienti tossici, un passato burrascoso. Per i pubblici ministeri Mario Bendoni e Davide Pretti, la responsabilità è chiara: hanno chiesto 14 anni di reclusione, convinti che si tratti di un atto deliberato e feroce, mosso da futili motivi. Un’aggressione che, se solo l’arma fosse stata diversa o il colpo meno preciso, sarebbe potuta finire in tragedia.
La difesa, però, prova a raccontare un’altra storia. Sostiene che non ci fosse intenzione di uccidere, che l’ambiente frequentato da entrambi i ragazzi fosse saturo di tensioni, provocazioni, sfide reciproche. E non si limita alle parole: porta in aula 64 messaggi trovati nel cellulare della vittima, in cui Borelli parla di comprare una pistola — una Beretta — e di versare un anticipo di 800 euro. Materiale che, per gli avvocati di Costanzia, dimostrerebbe che il clima tra i due era da regolamento di conti, e non unilaterale.
Come se non bastasse, nella vicenda entra anche Zahara Bao Rider, ex fidanzata del conte. Modella, spagnola, è accusata di aver tentato di mantenere i contatti fra Pietro e l’esterno mentre lui era già in carcere, provando persino a fargli arrivare un cellulare. Lei si difende dicendo di aver agito per amore. Anche per lei, la procura ha chiesto un anno e otto mesi di reclusione. A difenderla, un altro Perga, l’avvocato Manuel, che insiste sulla natura affettiva, e non criminale, dei suoi gesti. Ma la giustizia non si commuove facilmente.
Il processo è diventato un caso mediatico e sociale, perché nella figura di Pietro Costanzia si intrecciano contraddizioni brucianti: il nobile educato, l’erede di una casata, che si ritrova con un machete in mano nel cuore della notte, a colpire un ragazzo in mezzo alla strada.
L’immagine di un’Italia che mescola ancora i salotti aristocratici con le periferie abbandonate, dove la rabbia esplode senza controllo e la violenza si consuma in pochi secondi. Una parabola che non lascia indifferenti: c’è chi vede in lui un carnefice in cerca di redenzione, chi un ragazzo travolto da sé stesso, chi semplicemente una persona pericolosa da tenere lontana dalla libertà.
La sentenza è attesa a giorni. Si deciderà se Pietro Costanzia dovrà pagare con 14 anni di carcere o se la sua tardiva lettera, i messaggi sul telefono della vittima e la narrazione della sua fragilità psichica convinceranno il giudice a optare per una pena ridotta. Quel che è certo è che, al di là dell’esito del processo, resta un ragazzo mutilato, un altro rinchiuso dietro le sbarre, e una città che ancora si chiede come si possa passare così facilmente dal titolo di “conte” a quello di imputato per tentato omicidio.
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