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Cronaca

Rivarolo affonda nella violenza: risse, cori fascisti e vandalismi. E nessuno dice niente

Adolescenti fuori controllo, liti per gelosia, saluti romani e atti vandalici nel cuore della città. Le notti sono da incubo e la comunità resta in silenzio. Le forze dell’ordine intervengono, ma la deriva sembra inarrestabile

Rivarolo affonda nella violenza: risse, cori fascisti e vandalismi. E nessuno dice niente

foto archivio

Rivarolo non è più quella di una volta. Non è più la città di provincia dove la vita scorreva lenta, dove la piazza era il cuore pulsante del paese e non l’arena delle risse adolescenziali. Oggi è un teatro di scontri, minacce, urla e teppismo. Un campo minato dove basta uno sguardo storto, una parola di troppo o – peggio ancora – una ragazza contesa, per far scoppiare l’ennesima scintilla.

Venerdì mattina, in pieno centro, è andato in scena l’ultimo episodio. Piazza Litisetto, ore 11. Un uomo e una donna si insultano furiosamente davanti ai passanti. Le voci si alzano, le mani si muovono troppo. Il motivo? Pare un debito mai saldato, un prestito restituito solo a parole. Ma la tensione è reale. La gente rallenta, osserva, qualcuno si allontana spaventato. Qualcun altro tira fuori il cellulare. L’atmosfera è incandescente. Serve l’intervento dei carabinieri della stazione di San Giorgio, guidati dal nuovo comandante Alan Audo Giannotti, per evitare che si arrivi alle mani. Alla fine, tutto si spegne con un nulla di fatto: nessuna denuncia, nessun verbale. Ma il messaggio è chiaro: anche in pieno giorno, il centro può esplodere per un nonnulla.

Eppure, il vero volto notturno di Rivarolo è ancora più inquietante. Basta aspettare che il sole tramonti, che le vetrine abbassino le serrande e le famiglie tornino a casa. È allora che le strade cambiano padrone.

La notte del 30 aprile è stata solo l’ultima di una lunga serie. Tre interventi dei carabinieri in poche ore, tre emergenze in tre luoghi diversi. Una sequenza che racconta molto più di quanto dicano i verbali.

Tutto comincia in corso Italia, zona Poste. Ragazzi che urlano, si rincorrono, si provocano. Qualcuno getta una bottiglietta per terra, un altro si arrampica su una panchina, sfida chi lo guarda. I residenti affacciati assistono impotenti. È solo un assaggio. Poco dopo, lo scenario si sposta di poche centinaia di metri, al centro San Francesco.

Qui va in scena una vera e propria rissa. Una trentina i giovani coinvolti. Qualcuno prova a dividerli, altri urlano, ridono, filmano. Il motivo? Sempre lo stesso: una ragazza, un like di troppo, una gelosia esplosa tra le stories di Instagram. Ma la leggerezza del pretesto si scontra con la gravità dell’azione: calci, pugni, offese, mentre attorno si crea un pubblico incosciente e complice. I cellulari non servono per chiamare aiuto, ma per immortalare il momento e condividerlo. Così, in pochi minuti, la violenza si fa contenuto. La rissa diventa virale, e il disagio si trasforma in spettacolo.

E mentre i carabinieri cercano di ricomporre l’ordine, spostandosi da una zona all’altra, il caos prosegue altrove. Corso Torino, tarda serata. Un gruppo di adolescenti intona cori. Ma non cori qualsiasi: canti inneggianti a Mussolini, a braccio teso, tra le risate dei presenti. Una scena da brividi, inaccettabile in una società democratica. Le urla attraversano i palazzi, rimbalzano sui muri, arrivano dritte nelle orecchie di famiglie e bambini.

Poi, come se non bastasse, il gesto finale: una vela pubblicitaria del negozio Risparmio Casa viene sradicata, portata nei giardinetti di via Oglianico e lasciata lì, tra i cespugli e le cartacce. Un trofeo del nulla. Un atto vandalico che chiude una serata fatta di sfide alla decenza, alla legalità, alla convivenza.

In tutto questo, resta una domanda sospesa: dov’è la comunità? Dov’è la reazione?

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La violenza non è più circoscritta. Non è più questione di “bravate” o di “ragazzate”. È sistemica. È quotidiana. È un sintomo, non una malattia. Dietro ogni pugno, ogni insulto, ogni post delirante, c’è una mancanza. Di ascolto. Di regole. Di adulti presenti. Di luoghi sicuri. Di responsabilità.

Le forze dell’ordine, da parte loro, fanno quello che possono. Ma non possono bastare. Non bastano pattuglie, sirene, lampeggianti. Serve altro. Serve una città che si riconosca ancora. Che non accetti che i suoi figli trasformino le piazze in gabbie da combattimento. Che non lasci passare sotto silenzio un saluto romano. Che non consideri “normale” trovare cartelli abbattuti nei parchi.

Perché se tutto questo passa inosservato, allora il problema non sono solo i ragazzi. Il problema siamo anche noi.

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