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10 Novembre 2017 - 09:55
Narra la leggenda (la verità storica è, a tutt’oggi, controversa) che, durante una visita ad Alghero, il grande Carlo V dovendo fronteggiare una folla vociante e petulante che chiedeva titoli e onorificenze pronunciò la celeberrima frase: “ Estad todos caballeros”, siate tutti cavalieri.
Eravamo nel XVI secolo, l’Italia unita era lontanissima eppure se si vuole cercare una data simbolica per la primogenitura di uno dei maggiori vizi nazionali (la rincorsa a titoli e appannaggi purchessia) l’ottobre del 1541 può essere considerata, a ragione, quella corretta.
Siccome i mali non vengono mai da soli tale vizietto si è, poi, ulteriormente affinato nella cattiva abitudine di aggirare i problemi seri, talvolta drammatici della società italiana risolvendoli (fo per dire) con trovate semplicistiche e grossolane ( ancorchè assai alla moda per i costumi del momento)la cui unica “nobiltà”è data da un imprimatur ideologico ( marxista un tempo, vagamente e confusamente progressista oggi) che, pur facendo spesso strali del buon senso e del bene comune, darebbe dignità a scelte illogiche.
Un caso scuola è, oggi, rappresentato dalla spasmodica e scomposta ansia che anima i fautori del famigerato ius soli. L’opinione pubblica dopo aver assistito esterrefatta all’approvazione del c.d. Rosatellum (l’utilizzo del latino maccheronico da la cifra di questa, stravagante, riforma elettorale) è ora investita dal tentativo dell’esangue governo Gentiloni di far passare (a dispetto dei voti che non ci sono) una riforma della legge sulla cittadinanza che nelle attuali, tormentate contingenze appare fuori spartito.
Per non essere da meno (in senso eguale ed opposto) una certa destra vociante e irriflessiva ha dato fiato alle trombe di una caccia alle streghe che ha ulteriormente intorbidito le acque. Il tema è delicato, ha portata epocale ma è stato messo sul tavolo in modo maldestro e poco responsabile. Sullo sfondo, incoscientemente ignorata da troppi, si staglia una domanda che è il perno di tutto: esiste ancora una identità italiana? La comunità di popolo, intendendo per essa la moltitudine di cittadini che sono italiani da sempre, si riconosce ancora in una spina dorsale storico-culturale che ne regge il malandato corpo?
Al di là delle disquisizioni giuridico-costituzionali è questo il bene supremo che occorre preservare.
Per poter accogliere con la dovuta misura e severità normativa chi ambisce a diventare italiano dobbiamo come nazione prima che come stato avere l’orgoglio di preservare quello che la nostra storia ci impone di essere.
Un utopica e malsana idea che tutto è dovuto a tutti, che la cittadinanza è una concessione automatica priva di requisiti seri e verificabili che gli diano valore e dignità, rappresenterebbe un vulnus pericolosissimo per la nostra società.
In Italia, nel secondo dopoguerra, si sono scontrate (e non solo in senso metaforico) per decenni ideologie e valori tra loro opposti. Quello che ci ha tenuto uniti è stato quel filo sottile ma solidissimo che si chiama italianità.
Quel filo, costruito sul sangue di centinaia di migliaia di italiani, che (per rimanere in tema con la ricorrenza dell’ottobre 1917) consentì ai nostri nonni di superare Caporetto e arrivare a Vittorio Veneto.
Alle volte viene da pensare che la mancanza di cimenti seri e drammatici porti la nostra, mediocre e velleitaria, classe politica a voler apparire quella che non è: illuminata e lungimirante. Pretende di scrivere la storia mentre annaspa nel gestire l’oggi.
Come ammoniva il Manzoni : “non sempre ciò che viene dopo è progresso”
Tommaso Tamponi,
Chivasso
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