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CHIVASSO. Tre morti ammazzati in via Piave Trent’anni dalle prime sparatorie

CHIVASSO. Tre morti ammazzati in via Piave Trent’anni dalle prime sparatorie

Renato Cambursano, ai tempi sindaco di Chivasso

A Chivasso s’era già sparato trent’anni fa. Tre morti ammazzati a freddo in un circolo privato di via Piave. Salvatore Benfante, 32 anni, di Palermo; Fortunato Verduci, 23 anni, di Montebello Jonico (Reggio Calabria) e Giovanni Marra, 28 anni, anch’egli calabrese. Sorpresi da 20 colpi di P38 e di mitraglietta, mentre giocavano a scopa, tutti soli, con una ragazza bruna, unica testimone, al di là del bancone ad aspettare clienti. Chivasso quella mattina del novembre 1987 si alzò così, sbigottita, indignata, offesa. Una sparatoria da film americano.

I giornali scrissero e dissero che quei tre volevano diventare capibastone di un clan nuovo, dopo la disfatta dei catanesi, i cui capi erano finiti in carcere.

Un fatto così grave - commentò l’allora sindaco dc Renato Cambursano - a Chivasso non era mai successo...”. Certo un po’ di delinquenza fino a quel momento c’era stata, come in tutte le città di periferia, piene zeppe di operai e pochissimi impiegati. Era piuttosto la crisi della Lancia ad aver fatto tutto il resto, tra prepensionamenti, cassintegrazione e licenziamenti.

Tanti immigrati del sud se ne stavano tornando al proprio paese d’origine, tra chi rimaneva, molti erano i disoccupati affamati e assetati, pronti a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere, anche trafficare droga e armi.

Quei tre ragazzi uccisi in via Piave proprio di quello si volevano occupare. Marra e i suoi amici (il primo era contitolare del circolo assieme al fratello Salvatore) sarebbero stati i nuovi padroni di Chivasso grazie alla droga e a un circoscritto traffico di armi ad uso della mala di provincia. In quei 25 metri quadrati avevano anche allestito una centrale del totonero e ospitavano giocatori d’azzardo. Il circolo era diventato un vero e proprio casinò, presso il quale si recavano personaggi non solo della malavita ma giocatori appassionati, stanchi degli appartamenti privati, affittati apposta per una serata di chemin de fer.

Insomma Marra e i suoi avevano visto giusto, ma non avevano fatto i conti con la ‘ndrangheta che stava impadronendosi del territorio dopo aver letteralmente cancellato (con le confessioni fiume di Salvatore Parisi, detto “Turinella”, 1984) la mafia siciliana e il clan catanese dei Cursoti, guidato dai fratelli Miano.

Una storia, come ce ne sono tante, quando si parla di malavita organizzata. Eppure questa storia e gli arresti della scorsa settimana sembrano avere un unico filo conduttore.

Perchè vent’anni fa i fratelli Pietro, Luciano e Domenico Ilacqua e Rocco Gioffré, zio materno di Domenico e Francesco, oggi indagati, erano finiti in cella per spaccio di sostanze stupefacenti.

Perchè Pietro, scomparso nell’autunno del 2012, è considerato ispiratore dei quattro agguati da cui è partita l’operazione “Panamera”, ed era stato indicato come mandate del triplice omicidio di San Martino al circolo Acli di Chivasso.

Adesso sono finiti in carcere i sui due figli: Francesco e Luciano, fratellastri.

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