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10 Settembre 2025 - 11:56
Nei primi giorni di settembre 2025, l’Europa si è trovata al centro di nuove e inquietanti tensioni. Da un lato, l’ex ministro degli Esteri ucraino Dmitrij Kuleba ha scatenato un acceso dibattito con le sue dichiarazioni sulla presunta “fuga” dal Paese, poi smentite dal suo stesso ufficio stampa. Dall’altro, la notte del 10 settembre, droni russi Šached hanno violato lo spazio aereo della Polonia, costringendo Varsavia ad abbatterli e ad alzare l’allerta NATO. Due episodi distinti ma intrecciati, che riflettono la fragilità politica e militare dell’Europa orientale, mentre la guerra in Ucraina continua a intrecciarsi con il nodo irrisolto della dipendenza energetica da Mosca.
La “fuga” di Kuleba e le sue smentite
All’inizio di settembre 2025, dichiarazioni riportate dal Corriere della Sera hanno provocato scalpore: Dmitrij Kuleba, ex ministro degli Esteri ucraino, avrebbe affermato di essere “fuggito dal suo Paese come un ladro nella notte”. Fonti russe come RBC.ru hanno rilanciato citazioni drammatiche, comprese frasi come: “La verità è che Zelenskij e il suo entourage non vogliono che andiamo all’estero a dire cose… Ho fatto il calcolo che siamo in una ventina… questo decreto è rivolto a bloccare me e pochi altri”.
Subito dopo l’ufficio stampa di Kuleba ha precisato che la sua partenza, verso la Corea del Sud - e non in Polonia come inizialmente riportato da alcuni media - per una conferenza programmata da tempo, non era affatto una fuga. Nei giorni successivi, l’ex ministro ha ironizzato sulla vicenda via Instagram, mostrando il badge del World Knowledge Forum e annunciando rientro a Kiev per il 20 settembre, in occasione del festival ‘Courage’. Le testate ucraine confermarono che Kuleba avrebbe partecipato a interventi anche in Polonia, con ritorno previsto verso fine mese.
Kuleba ha poi commentato: “Il mio salario dipende dall’estero... se vai all’estero da libero cittadino diventi automaticamente un agente che complotta ai danni dello Stato”.
Questa vicenda, lungi dall’essere marginale, illumina lo scontro tra la necessità di coesione nazionale in tempo di guerra e il rischio derivante da politiche percepite come restrittive nei confronti della libertà di espressione e della società civile.
I cieli bruciano: i droni russi sorvolano la Polonia
Quasi in parallelo, è avvenuta una minaccia senza precedenti: durante un violento attacco russo, almeno otto droni Šached hanno attraversato lo spazio aereo polacco. Il presidente Zelenskij su X non ha esitato a definirlo: “Un altro passo di escalation… nello spazio aereo della NATO”.
La reazione polacca è stata immediata: sotto la guida del primo ministro Donald Tusk, i droni sono stati abbattuti e ieri si è tenuta una riunione d’emergenza del governo. Tusk ha evocato: “Siamo di fronte a una provocazione su larga scala… la prospettiva di un conflitto militare è oggi più vicina che in qualsiasi altro momento dalla Seconda Guerra Mondiale”.
Lo scoppio di questa crisi ha sollevato preoccupazioni a livello internazionale, spingendo la NATO e l’UE a discutere di nuove misure difensive. Ma sotto questo drammatico confronto geopolitico affiora un nodo altrettanto cruciale: la dipendenza energetica europea da Mosca.
Energia, potere e vulnerabilità
In un momento in cui i cieli d’Europa rischiano di trasformarsi in un nuovo teatro di tensioni, l’anima profonda della crisi si nasconde nelle nostre centrali energetiche.
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha progressivamente ridotto la sua dipendenza dai combustibili fossili russi. Il gas importato è calato da circa il 40-45% nel 2021 a circa il 10-15% nel 2025. Ma la riduzione non è uniforme: mentre Francia, Svezia e Danimarca mostrano resilienza e infrastrutture solide, Paesi come Ungheria, Bulgaria, Slovacchia e - anche se in quantità estremamente ridotte - l’Italia, restano vulnerabili, ostacolati da questioni infrastrutturali, costi elevati e legami storici con Mosca.
In particolare, l’Ungheria continua a essere tra i maggiori importatori di gas russo nell’UE, grazie alla centralità geografica e al gasdotto TurkStream. Anche con nuovi contratti pluriennali con Shell, l’orientamento energetico di Budapest resta saldamente legato alla Russia. Slovacchia e Ungheria si mostrano reticenti a sostenere l’agenda europea che prevede l’uscita dal gas russo entro il 2027, opponendosi a date troppo stringenti, addurrebbe costi sociali elevati.
Inoltre, l’UE mantiene l’obiettivo di eliminare completamente le importazioni di petrolio russo entro il 2028, ma il cammino è complesso. I contrasti interni e la disparità tra i membri suggeriscono che l’accordo sia fragile, percepito come un “forza maggiore” sgradito in alcuni governi.
Anche nei Balcani, la situazione è simbolica: in Moldovia, la dipendenza energetica è stata letteralmente spezzata grazie alla cooperazione con l’UE, che ha finanziato infrastrutture per interrompere i legami con Gazprom.
Questa battaglia energetica è tanto silenziosa quanto essenziale: il controllo delle rotte del gas, il prezzo e l'accesso alle forniture plasmano le alleanze e condizionano la volontà politica di reazione a eventi come l’incursione dei droni.
Così, l’Europa si trova sospesa tra due pericoli convergenti: da una parte la pressione militare e politica di Mosca, dall’altra la fragilità interna causata da legami energetici persistenti. La crisi nel cielo polacco non è solo il segno di una guerra che si allarga, ma anche l’immagine speculare di vulnerabilità che si insinua nelle fondamenta del continente.
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