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08 Gennaio 2019 - 18:17
Parla con accento romanesco e con tutta la bellezza di Roma che gli scorre nel sangue, il poeta Enrico Adduci si racconta. Classe 1936, ha vissuto a Saluggia per molto tempo e da qualche anno abita a Torino. Prima di raccontare delle sue poesie, Adduci ci introduce in punta di piedi a scoprire la sua vita, che inizialmente, in gioventù, si divideva tra Roma e Saluggia.
«Ho fatto il servizio militare per quattro mesi a Lecce, e poi a Roma dove sono diventato ufficiale e istruttore», spiega. Nel 1958 è stato assunto dalla Montecatini, ed è così che conobbe Saluggia, il paese dove da Roma dovette trasferirsi per lavorare alla costruzione di una torre nucleare. «E’ qui che conobbi mia moglie Carla, purtroppo deceduta da alcuni anni. La corteggiai molto e poi la sposai. Quando dovetti ritrasferirmi a Roma, a lei non piacque molto, così dopo poco tornammo in Piemonte. Mi dimisi e aprii un ufficio da geometra a Saluggia, e questa fu la seconda parte della mia vita».
Quando tornava a casa, dopo il lavoro, si dedicava alla scrittura di poesie in romanesco. Era una passione, un amore, che tuttora non ha abbandonato. «Ho scritto 1300 poesie e otto volumi, la maggior parte in romanesco. In una delle serate organizzate in biblioteca a Chivasso, ho lasciato tutti i miei libri lì, consultabili e disponibili ad essere presi in prestito». Fra questi ricordiamo Piazza Farnese, Aridaje! e I sogni, almeno quelli.
La passione per le lettere era presente già nel lontano 1951, quando vinse il primo premio come migliore studente di latino alle scuole medie, all’istituto “Sant’Apollinare” vicino a piazza Navona.
Fra i premi più importanti, Adduci ricorda quello della città di Recco, con un primo premio di poesia in vernacolo; il premio di Poesia Granata dove si è classificato primo con il testo “Vince sempre il Toro”; il premio “Il borgo italiano”, vicino a Matera, dove si è classificato primo con la poesia Pasciano; e ovviamente i numerosi riconoscimenti ottenuti a Chivasso dal premio Carla Boero.
«La poesia mi sta salvando», conclude Adduci; «se non avessi da scrivere, sarebbe la fine per me».
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