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05 Dicembre 2018 - 16:30
Il lupo è dunque tornato nel Chivassese e nel basso Monferrato. La conferma giunge dall’Ispra, l’Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che ha eseguito le opportune analisi sui resti di una delle pecore che da qualche tempo si rinvengono dilaniate in campagna. Si tratta di un ritorno al passato? È presto per sostenerlo.
Le fonti d’archivio lasciano intendere che i lupi furono per secoli una presenza abituale nei boschi della pianura e delle colline torinesi. La loro memoria si tramandò di generazione in generazione, anche quando non rappresentavano più una reale minaccia. Incapaci di ammansirle come San Francesco d’Assisi, gli uomini s’ingegnarono per ottenere una protezione spirituale che supplisse alle scarse possibilità difensive.
Una cappella della frazione Filia di Castellamonte è tuttora dedicata a San Defendente, «protettore contro l’infestazione dei lupi», come puntualizzò il corografo Antonino Bertolotti nel 1871, aggiungendo che «esisteva già duecento anni» prima. In un ponderoso testo francese sui caratteri dei santi nell’arte popolare, il gesuita Charles Cahier (1807-1882) conferma che San Defendente veniva invocato «en Lombardie comme protecteur contre les loups». E afferma che il suo culto era diffuso anche «à Chivas et à Casal».
Effettivamente il martire, venerato pure quale difensore contro gli incendi, è uno dei compatroni della comunità di Chivasso e figura – con la Vergine, San Rocco, San Grato, San Giorgio e altri – nell’icona o «palla de’ santi protettori» che fu «rinnovata» nel 1699 dal pittore Antonio Barbero, secondo quanto riferisce l’agostiniano Giuseppe Borla (1728-1797), ed ora si trova nella chiesa della confraternita di San Giovanni Battista e di Santa Marta.
Lo stesso Borla riferisce che i lupi si facevano abitualmente vedere negli «scorsi antichi secoli» attorno alle mura di Chivasso, «sbranando ora uomini e donne ed ora esportando li fanciulli ristretti nelle loro culle dalle rispettive paterne case», tentando persino d’introdursi in città. I pubblici amministratori ricorsero senza successo a «tutti quei mezzi che loro suggerì l’arte umana», quindi impetrarono la protezione di San Giorgio, impegnandosi a solennizzarne la festa, il 23 aprile di ogni anno. E miracolosamente i lupi scomparvero dal territorio. In tale circostanza, pertanto, alcuni credenzieri si recavano dai concittadini per collettare granaglie, segale, fave e vino. «Delle quali cose, parte ridotta in pane […] e parte in minestra, sopra il pubblico gerbido […] a tutti li civassini indistintamente se ne faceva la limosina», spiega Borla, la cui narrazione finisce per assumere un carattere edificante. «Così grande – aggiunge – era la fiducia […] nel Santo per mezzo di questa limosina che chiunque di essa ne partecipava sicuro si riputava in quell’anno dall’incontro funesto de’ lupi, per ciò tutti, e senza veruna distinzione, accorrevano a quella volta».
Col tempo, tuttavia, la tradizione si sarebbe alterata, offrendo il pretesto per baldorie e gozzoviglie.
Fu allora che i lupi tornarono a «scorrere […] pel territorio»: «in breve spazio di tempo sbranarono più civassini, e molti di essi furono sì malconci da quelle fiere che miseramente dovettero passare li residui giorni della loro vita». Ravvedutisi, gli abitanti di Chivasso rinnovarono il voto a San Giorgio e «liberi ne andarono pella seconda fiata dal descritto castigo».
Però, allo scopo di evitare futuri inconvenienti, abolirono la raccolta dei generi commestibili, limitando gli impegni esteriori alla celebrazione della festa e all’astensione dalle «opere servili».
Insomma, meglio non mettere troppo alla prova la buona fede e l’onestà delle persone.
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