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L’eccidio di TORINO

L’eccidio di TORINO

Tra i vari aspetti controversi del movimento unitario nazionale, condannati alla dimenticanza generale della Storia riconosciuta, ci sono gli imbarazzanti – per la retorica unitaria – fatti di Torino del 1864, come quelli, – ma presto ce ne occuperemo su queste pagine – della presenza dei campi di concentramento istituiti in Piemonte e anche in Canavese, per i soldati del regio Esercito borbonico che dopo l’unità del paese rifiutarono di prestare giuramento al nuovo re di Savoia legati al patto di fedeltà al re Francesco II di Borbone di Napoli e delle Due Sicilie.

Quel re che si definiva: Napolitano, nato tra voi, non ho respirato altr’aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni.

Eppure, spesso ci dimentichiamo che questo napoletanissimo re era un mezzosangue piemontese!

Nel perverso gioco delle dinastie europee, Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Francesco II di Borbone) era figlio di un Borbone e di Maria Cristina di Savoia, figlia di re Vittorio Emanuele I, ma che non conobbe mai la madre perché morì cinque giorni dopo il parto.

Ma torniamo sui nostri passi: destinata nelle premesse (la città di Torino) a svilupparsi  come capitale del nuovo regno d’Italia, essendone stata motore del processo unitario, la città aveva richiamato molti artigiani, dal Piemonte, dalla Svizzera, da Roma, dal Meridione e anche dal Canavese, in cerca di miglior fortuna nella capitale. Ma il governo del toscano Minghetti, si era trovato a dover lavorare ad una Convenzione “segreta” con Napoleone III per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, firmata il 15 settembre 1864, senza porsi alcun quesito sulle aspirazioni di chi pensava a Roma unica capitale del regno. E senza minimamente considerare l’effetto dirompente che avrebbe avuto tra i torinesi, e soprattutto tra quanti da breve tempo lo erano diventati, trasferendosi in una città della quale era lecito prevedere un grande sviluppo e che si sarebbe invece trovata isolata, ai margini occidentali del nuovo stato, troppo vicino alla Francia e all’Europa. L’opinione pubblica (la medesima che portò al plotone d’esecuzione il generale mazziniano Girolamo Ramorino dopo la disfatta di Novara e di cui ci occuperemo su queste colonne) della città era orientata verso la seguente situazione: la Convenzione Minghetti – Napoleone III, un tranello per far sì che l’Italia rinunci a Roma definitivamente, per sempre, così come rinuncia Venezia a favore di Vienna.

Così la sera del 20 settembre, anche dopo la denuncia della stampa locale, dopo il lavoro, le strade erano affollatissime, un oratore parlava in Piazza d’Armi sulla nobiltà della nazione e sulla necessità della concordia. In Dora Grossa (oggi Via Garibaldi) un altro oratore parlava dell’importanza di Roma capitale e della necessità di liberare Venezia. Gli slogan erano: la capitale a Roma e anche qualcuno contro il governo Minghetti.

In maniera civile tutta la folla si stava ritirando, quando in via san Filippo Neri un drappello di Carabinieri disperse brutalmente un gruppetto di cittadini arrestandone alcuni.

Un articolo pubblicato sulla Gazzetta di Torino, contribuì ad esacerbare gli animi, dichiarando che il re da Firenze sarebbe tornato, di tanto in tanto, a far visita a Torino. Nel pomeriggio del 21 una folla di cittadini si recò a protestare contro la sede della Gazzetta di Torino, ma sempre senza violenza. Improvvisamente dalla Questura una compagnia di Guardie di Pubblica Sicurezza assalì a colpi di daga la folla: presente anche il ministro di Francia, barone Mallaret che per poco non fu assalito.. L’assalto repentino provocò tra i manifestanti una decina di feriti per colpi d’arma da taglio; vennero arrestati una trentina di manifestanti e rinchiusi in Questura. Anche un deputato del parlamento, fermatosi per soccorrere un manifestante, venne quasi aggredito da una guardia, c si arrestò dal colpirlo solo davanti all’esibizione della medaglia parlamentare.

Il sindaco, Emanuele Luserna di Rorà, inviò subito una delegazione con l’intimazione di libeare i prigionieri, e ciò avvenne. In anticipo però la folla si era portata davanti alla Questura (all’epoca in Piazza San Carlo), iniziando un tiro di pietre raccolte dall’acciottolato, che bollarono e abbatterono lo stemma regio sopra il portone della Questura. Il Consiglio municipale, riunito ad oltranza (unico precedente in Europa fu la Comune di Parigi del 1830), determinò che Torino era pronta al sacrificio per Roma. Altre  Capitali non potevano che ingiuriare e offendere Torino.

Con i voti contrari di Menabrea e Balbo, il Consiglio determinò di richiedere chiare spiegazioni al Governo e presentare le lamentele della Città. Nel frattempo però il ministro Peruzzi vietò la mobilitazione della Guardia Nazionale e invece mobilitò i Carabinieri, la Pubblica Sicurezza e l’Esercito. In Piazza Castello e in Piazza San Carlo gli allievi Carabinieri erano disposti in linea di tiro come per l’addestramento. I cittadini gridavano per le via del centro: La Capitale a Roma! Abbasso il ministero! Viva Garibaldi, e anche: Morte a Napoleone!

Un gruppo di ragazzi aveva preso un tamburo dal Teatro Balbo (distrutto dalla R.A.F. in un bombardamento durante la II Guerra mondiale) marciava con un tricolore. In Piazza Castello intanto una linea di Carabinieri si allungava obliquamente tra Palazzo Madama e via della Zecca (oggi Via Verdi) per impedire ai ragazzi di arrivare ai cancelli del palazzo del Governo a Palazzo Madama.

Senza i regolamentari squilli di tromba o dei rulli di tamburo, i Carabinieri imbracciarono le armi, mirarono lentamente e spararono una scarica di fucileria di linea ce lasciò subito 12 cadaveri a terra e 30 o 40 feriti anche tra chi era pacificamente seduto al tavolo del caffè Dilei (all’incrocio tra Via Po e Piazza Castello) intento a leggere il giornale. A quel punto la folla, anziché fuggire, si raggruppò tumultuosamente in Piazza Castello, i giovani sfrontati offrivano il petto ai giovani Carabinieri gridando: «Tira carogna, tira caplon» (per via della lucerna, il grosso cappello nero che li contraddistingueva). I Carabinieri per nulla intimoriti stavano per ripetere il tiro, quando un personaggio distinto, confuso per Lord Granville (George Leveson-Gower, II conte di Granville, Ministro degli Esteri britannico), intimò perentoriamente di non sparare su gente disarmata.

Intervenne la Guardia Nazionale in piccoli drappelli per far rientrare nelle caserme i Carainieri e, per poco, non iniziò il primo scontro di una nuova guerra civile. In fase di rientro alla caserma i Carabinieri si sgomberarono il passo. A suon di scariche di moschetteria che fecero altre vittime. Dal campo militare di San Maurizio Canavese giunsero la mattina del 22 settembre 20.000 uomini, altri 10.000 il giorno successivo. Vennero posizionate batterie d’artiglieria in Piazza Milano e Piazza d’Armi con munizionamento composto da cartoccio a mitraglia. Le piazze erano occupate dai soldati accampati. Batterie di mortai d’assedio vennero installate sul Monte dei Cappuccini per bombardare la città. Ben 150.000 cartucce erano state prelevate dall’Arsenale (oggi Sermig – Arsenale della Pace) e distribuite alle truppe.. Il ministero degli Interni bloccò ogni comunicazione telegrafica con l’esterno, non prima di aver inviato in Lombardia la notizia che la ribellione di Torino era per motivi municipali e non nazionali.

La Gazzetta del Popolo e L’Italia pubblicavano ora inviti alla calma e alla legalità, così come i proclami del Municipio. Il Diritto invocava la calma per preparare la vendetta della legge, la  cattolica Armonia (la cui esistenza era finanziata dai nobili Birago di Vische), di ritrovare la quiete per il trionfo delle aspirazioni. Venne la sera del 22, dopo il lavoro i torinesi si concentrarono in Piazza San Carlo e le truppe di linea erano state disposte lungo e sotto i portici, assurdamente schierate linea a fronte linea longitudinalmente, così da colpirsi vicendevolmente dal fuoco amico. Sul terzo lato, ove sorgeva la Questura, altre truppe di linea, Carabinieri dentro la Questura e Guardie di Pubblica Sicurezza (appena sciolte dal Governo) mischiate nella folla. Qualche armato era tra la folla, ma una sparuta minoranza.

La folla allora marciò verso la Questura, ma da una finestra partì un colpo di pistola e si udì lo squillo di una tromba. A quel punto un drappello di Carabinieri uscì dalla Questura, si dispose in linea e aprì il fuoco sulla folla, colpendo però anche la fanteria di linea allineata tra i Carabinieri e la folla. Cadde ferito il Colonnello Colombini del 17° Fanteria di linea. Gli altri ufficiali, non comprendendo che il tiro arrivava dalle loro spalle, ordinarono la posizione di tiro contro la folla e aprirono un micidiale fuoco. Molti proiettili , oltre a colpire i civili, ferirono i commilitoni schierati sul lato opposto della piazza! Per 5 o 6 minuti fu una vera battaglia con circa un centinaio di caduti tra cui i medesimi soldati colpiti dal fuoco amico a causa della folle distribuzione impartita dal comando di piazza.

Il Generale Brignone, con il deputato Lanza, correva tra la folla e i soldati chiedendo di smettere la carneficina. Un capitano dei bersaglieri colpito in testa da una pietra, ordinò di non psarar. Un altro capitano di linea si pose davanti ai fucili spianati della sua compagnia impedendo il fuoco contro i civili e contro gli altri soldati. Se la cavalleria rifiutò di caricare la folla, alcuni feriti furonofiniti a baionettate da agenti infiltrati. A mezzanotte la situazione precipitò nuovamente e la truppa aprì il fuoco contro la folla. Il sindaco fece chiudere i cancelli dell’armeria per evitare che la Guardia Nazionale prelevasse i moschetti per scagliarsi contro l’esercito.

Il 23 mattina le officine produssero una grande quantità di armi bianche convertendo le lime in coltelli, si formavano centri d’azione. I decreti d’arresto per tutte le personalità torinesi, tra cui Cassinis, presidente della Camera e Sclopis di Salerano, presidente del Senato, erano pronti, così come il decreto di stato d’assedio che il governo stava per affidare al Generale ex borbonico Pianell. Ma la folla smobilitò rassegnata. Il re era adirato con il sindaco Luserna di Rorà, ma quest’ultimo affermò: Ebbene se egli è il re, io sono il sindaco. Così l’epigrafe alla cronaca dell’anonimo cronista che si firmò Marco Veneziano e pubblicò la cronaca al riparo in Svizzera, a Lugano nel medesimo 1864: I Croati e i Cosacchi sono stati eguagliati a Torino nell’anno di grazia 1864, sotto gli auspici di Minghetti, di Peruzzi e di Spaventa, regnante Vittorio Emanuele II, preponderante in Italia il partito moderato.

L’Ispettore Sanitario della città di Torino, il dottor Giuseppe Rizzetti, testimone oculare degli scontri, scriveva dei caduti e dei feriti il 28 settembre 1864, subito dopo il massacro dei cittadini del 21 e 22 settembre in Piazza Castello e in Piazza San Carlo. Il libretto, ormai dimenticato da anni, si trova in Italia in qualche esemplare in poche biblioteche: a Cremona, Milano, Roma e un paio di copie a Torino. Ma grazie alla digitalizzazione della copia conservata all’Harvard College Library in Massachussets negli Usa, tutti possono leggerla sul servizio librario del più noto motore di ricerca, insieme alla precedente testimonianza di Marco Veneziano.

Il Rizzetti indirizza la sua relazione al sindaco di Torino. Le vittime, cadute sul terreno urbano degli scontri e decedute poco dopo nei vari ospedali, furono 187, tra cui 6 donne. Sfuggono alla conta alcuni feriti ricoverati in domicilio privato.

Nell’elenco dei morti e dei feriti risultano anche alcuni canavesani. Giuseppe Vercellino d’anni 18, studente di Valperga, ferito il 21 e deceduto il giorno dopo all’Ospedale Mauriziano. Emanuele Sacchi, d’anni 56 di Rivarolo Canavese, ferito il 21 e ricoverato in domicilio privato con una palla di moschetto che gli aveva trapassato il piede sinistro. Defendente Gedda, d’anni 23 di Ivrea, macchinista, ferito il 22 e ricoverato al San Giovanni e morto il 12 ottobre. Canuto Richetta di Pont Canavese, d’anni 28, operaio all’Arsenale, ferito il 22  ricoverato al San Giovanni e morto il 25 settembre. Angelo Farinetto, d’anni 17, di Rivarolo, fabbro ferraio, ferito il 22 e trasportato al San Giovanni il 23. Monaco Enrico, d’anni 13 di Verolengo, muratore, ferito il 22, trasportato al’Ospedale San Giovanni il 22 e uscito il 25 settembre. Mommi Francesco, d’anni 23, di Saluggia, sergente, ferito il 22, trasportato all’Ospedale Militare il 22, uscito il 26. 

Tra i caduti rimasti nelle piazze e nelle strade risultano: Meinardi Olisio, d’anni 23, di San Giusto Canavese, falegname morto il 2 settembre per un colpo d’arma da fuoco alla testa; Oddone Matteo, d’anni 18 di Feletto, calzolaio, celibe, morto il 22 settembre per numerosi colpi di baionetta alla testa che gli fracassarono il cranio; Sbitrio Domenico, d’anni 27 di Castellamonte, prestinaio (panettiere), celibe, morto il 22 settembre ricevendo all’avambraccio e in pieno petto una scarica di 4 colpi di moschetto. Salvi Emilio, di Rivara, d’ani 33, facchino, celibe, morto il 22 settembre per una palla di moschetto alla tempia destra.

Dalla descrizione delle ferite, Rizzetti scriveva: la direzione delle ferite, è nella maggior parte dei casi dal di dietro in avanti, il che prova, siccome notava il cav. Borelli nei suoi ammalati, che i disgraziati furono colpiti nell’atto in cui fuggivano: alcuni affetti da ferite dall’avanti all’indietro consta che si trovavano a grandi distanze, e non si accorsero dell’improvvio sparo, alcuni poveretti si credevano al riparo sotto i portici di Piazza Castello. Già sui primi caduti, malgrado le scariche di moschetteria, si prcipitarono medici e farmacisti del centro. Ma gli stessi caffè, birrerie e alberghi si convertirono in luogo di ricovero dei feriti prima del trasporto negli ospedali di San Maurizio, San Giovanni, Militare e Oftalmico accolti da professori medici, dottori e allievi di medicina. A Palazzo Civico dai chirurghi della 3a Legione della Guardia Nazionale e del 1° Battaglione della medesima. Quando Rizzetti si recò al Campo Santo Generale ove erano stati portati i cadaveri,, vi trovò all’interno 600 soldati accampati e comandati da un maggiore, che autorizzato da un ufficiale di Polizia presente, lo autorizò ad esaminare i cadaveri.

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