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25 Settembre 2017 - 09:01
Abreve arriveranno a Chivasso altri 20 profughi e il dibattito sull’opportunità dell’accoglienza si farà feroce, senza esclusione di colpi. Da un lato quelli che i loro avversari chiamano con disprezzo “buonisti”. Dall’altro quelli che i “buonisti” etichettano tout court “razzisti”. In mezzo noi. Noi che pensiamo che le ondate migratorie andrebbero in qualche modo regolamentate perché poi il parcheggiatore di piazza d’Armi non ci dà fastidio, ma ci genera solo tanta tristezza. Per lui, costretto a mendicare da mangiare e per noi, perché il nostro paese di Bengodi fonda su illusioni che, se non saprà accettare, lo spingeranno a delinquere. Noi che quando leggiamo di uno stupro, sentiamo una fitta al cuore al pensiero che una donna sia per sempre privata del dolce sapore dell’amore e poco ci importa di sapere di che colore era la pelle del mostro, perché il diavolo non ha colore e non ha razza. Noi a cui, obiettivamente, le panchine rosse dicono poco. Noi che crediamo che non sia corretto che desolanti feste afro, relegate in un angolo del cortile di palazzo Santa Chiara, sostituiscano le sagre dei nostri borghi. Perché crediamo che la convivenza regolata di valori diversi unisca ed arricchisca la collettività, sancendo l’uguaglianza e combattendo le discriminazioni e le differenze. Noi che vorremmo che le istituzioni aiutassero anche il nostro connazionale disoccupato, abbandonato a sé stesso, ma che ci indigniamo alla notizia che alcuni chivassesi sarebbero usciti dalla piscina comunale quando vi sono entrate persone di colore. Noi che siamo cresciuti con i racconti dei nostri nonni che, con gli occhi umidi ci raccontavano della guerra, degli “sfollati” che, rimasti senza casa a causa dei bombardamenti, andavano a cercare rifugio in campagna, nelle cascine. E un piatto per loro c’era sempre, magari misero perché neri, rossi e briganti erano già passati prima a riscuotere la propria parte, ma comunque c’era. Noi che domani saremo accusati contemporaneamente di buonismo e di razzismo, stritolati tra i filosofi di Facebook e gli urlatori di piazza con i loro assordanti pifferi magici. Noi che sentiamo forte il messaggio secondo il quale nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso, ma siamo tutti parte della stessa umanità, unica, senza pregiudizi e deroghe, e dunque la sofferenza di uno diventa la sofferenza di tutti. Noi pochi, ma strenui difensori del dialogo. Noi nemici giurati dell’ imperante estremismo.
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