“Nonno Antonio” non c’è più. Il crescentinese Antonio Arbini se n’è andato nella notte tra martedì 16 e mercoledì 17 febbraio. Tranquillamente e serenamente nella sua abitazione in frazione Campagna. Aveva 92 anni e storia dolorosa alle spalle. Antonio Arbini è stato prigioniero del campo di concentramento di Mauthausen, il più grande di tutta l’Austria. Uno di quelli che provocò il maggior numero di morti. Le SS lo utilizzavano per eliminare i nemici politici. Antonio Arbini era un nemico politico. Poco più che diciottenne si unì ai partigiani combattenti della collina chivassese di Castagneto Po, dove all’epoca viveva con la sua famiglia. A 19 fu catturato e arrestato dai tedeschi, che lo imprigionarono nelle carceri Nuove di Torino per poi portarlo al campo di transito di Bolzano. Caricato su un treno insieme a tantissimi altri giovani come lui, fu portato a Mauthausen. Divenne prigioniero di campo il 30 novembre 1944 e liberato l’ 8 maggio del ’45 per mano degli alleati americani. In quei sei lunghi mesi il suo nuovo “nome” lo portò inciso su un braccialetto di ferro stretto al polso. Era la sua matricola, 115350. Sulla sua camicia a righe, lui non aveva cucita la stella di David, bensì un triangolo rosso. Il simbolo dei prigionieri politici. Nel campo di Mauthausen, Antonio Arbini aveva il compito di raccogliere i cadaveri dei suoi compagni di prigionia e portarli nelle fosse comuni. “I soldati tedeschi- raccontano la figlia Anna Maria ed il genero Riccardo Scotto con i documenti di prigionia ormai sgualciti in mano- davano da mangiare pane misto a segatura per riempire più in fretta lo stomaco e per accelerare la morte”. Ma facevano anche punture a base di benzina e docce gelate. Spesso le armi utilizzate erano i morsi dei cani o la corrente sul filo spinato, la maggior parte delle volte, però, si finiva nei forni. Il destino di chi si ammalava erano i forni. Quello di non riusciva a portare a termine il proprio lavoro, pure. “Quando Antonio uscì da lì pesava 38 chili. Gli alleati lo portarono a Milano in un ospedale dove c’erano le suore. Poi prese un treno e arrivò a Chivasso, dove ritrovò la sua famiglia”. A 27 anni, Antonio Arbini si sposò e trovò lavoro alla Lancia, dove rimase fino al giorno della pensione. A 46 anni rimase vedovo, con 5 figli da crescere. L’esperienza nei campi di concentramento lo resero “un bravo padre ma dal carattere duro”. Dell’esperienza a Mauthausen non parlò mai fino a quattro anni fa. Fino a quando il nipote Francesco non gli chiese di raccontare tutto a scuola durante le celebrazioni per la Giornata della Memoria. “Sapevamo che era stato a Mauthausen, ma fino ad allora non abbiamo mai saputo cosa visse”, ricordano i parenti. Da quel giorno, Antonio è andato nelle scuole ogni anno. Proprio questo novembre è stato ospite dell’ Unita di Chivasso. Sempre a Chivasso è stato ospite dell’Unitrè. “Ogni volta, rivivere quel momento, era per lui una forte emozione. La domanda che più di frequente gli ponevano gli studenti era se avesse paura di morire e la sua risposta era sempre di no. Antonio aveva paura di morire più adesso di allora”. Gli stessi studenti gli hanno reso omaggio il giorno dei funerali, che si sono svolti giovedì 15 febbraio nella chiesa della Beata Vergine Assunta di Crescentino. Antonio Arbini, uno tra i pochissimi sopravvissuti a Mauthausen, lascia i figli Valeria, Maria Luisa, Anna Maria con Riccardo, Francesco con Maria Grazia ed i nipoti.
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