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L’Olimpico canta, De Rossi trattiene le lacrime: a Roma certe storie non finiscono mai...

Applausi, striscioni e occhi lucidi per un ritorno che va oltre il risultato

L’Olimpico canta

L’Olimpico canta, De Rossi trattiene le lacrime: a Roma certe storie non finiscono mai...

Non è stata una semplice partita di campionato. All’Olimpico, nella notte di Roma-Genoa, il calcio si è fermato per qualche minuto e ha lasciato spazio alla memoria, all’identità, a quel filo invisibile che lega un uomo a una città anche quando i colori cambiano. Daniele De Rossi è tornato nello stadio che lo ha visto crescere, lottare, vincere e soffrire, questa volta seduto sulla panchina avversaria. E Roma lo ha accolto come si accoglie chi non se n’è mai andato davvero.

Prima ancora del fischio d’inizio, l’atmosfera era diversa. Non ostile, non fredda. Carica. Lo speaker lo dice chiaramente, quasi a mettere un punto fermo: per l’Olimpico De Rossi non sarà mai un avversario. Parte il video, scorrono le immagini delle sue battaglie in giallorosso, dei gol, delle scivolate, delle notti europee. Gli spalti si alzano in piedi. L’applauso è lungo, pieno, viscerale. Lui resta lì, immobile per un istante, con gli occhi che tradiscono tutto quello che le mani infilate nelle tasche non riescono a contenere.

Quando incrocia lo sguardo di Dybala, Soulé e Mancini, l’emozione diventa fisica. Gli abbracci arrivano prima della partita, come se il risultato potesse aspettare. È il segno di un rapporto che va oltre il campo, oltre le stagioni, oltre le scelte che a volte il calcio impone. De Rossi cammina nervosamente a bordo campo, mentre l’inno gli rimbalza addosso come un’eco familiare. Diciannove anni in giallorosso non si archiviano con un cambio di panchina.

Dalle curve iniziano a comparire gli striscioni. La Sud parla chiaro: questa è e resterà casa tua. La Tevere risponde, richiamando il romanismo come valore, come appartenenza. Anche la Monte Mario si unisce all’omaggio, con la presenza dell’Ostiamare, la sua Ostia, quella che De Rossi non ha mai smesso di rappresentare. Lui osserva, ascolta, poi alza una mano. Non serve altro.

In campo il Genoa soffre, la Roma colpisce. Ma quando la partita sembra indirizzata e il risultato pesa, dalla Curva Sud si alza un coro che spazza via ogni logica sportiva. Il nome di Daniele De Rossi rimbalza nello stadio, lo stesso cantato per quasi vent’anni. Un gesto che dice tutto: qui il legame viene prima del tabellino.

La sconfitta per 3-1 non cancella nulla. Anzi, rende il finale ancora più umano. A partita finita, De Rossi percorre il campo lentamente, sotto la curva. Il giro di campo non è una celebrazione formale, è un ritorno emotivo. Lui lo sa, lo sente. Le parole arrivano dopo, con la voce di chi prova a tenere insieme orgoglio, affetto e amarezza per il risultato. Il tifo romanista, dice, resterà sempre nel suo cuore. E si percepisce che non è una frase di circostanza.

C’è il dispiacere di aver salutato con il volto scuro, perché l’allenatore non riesce mai a separarsi del tutto dall’uomo competitivo. Ma c’è anche la gratitudine per l’affetto dei giocatori della Roma, rimasti in campo per salutarlo, per ribadire un rispetto che non si spegne con un esonero o con una panchina diversa.

Quella dell’Olimpico non è stata solo la prima volta di De Rossi da avversario. È stata la dimostrazione che, nel calcio moderno fatto di contratti e transizioni rapide, esistono ancora storie che resistono. Storie in cui una maglia, una curva e un nome continuano a riconoscersi, anche quando il destino prova a separarli.

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