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Gli Stati Uniti bombardano il Venezuela? Trump parla di un molo distrutto e apre una nuova guerra senza prove

Una dichiarazione del presidente Donald Trump fa pensare al primo attacco diretto a terra contro il narcotraffico venezuelano. Nessuna conferma ufficiale, nessuna immagine, nessun dettaglio operativo. Restano solo i morti in mare, i dubbi giuridici e il rischio di un’escalation internazionale

Gli Stati Uniti bombardano il Venezuela? Trump parla di un molo distrutto e apre una nuova guerra senza prove

Primazol, Venezuela

La deflagrazione, dicono i pochi indizi disponibili, sarebbe stata così potente da spegnere in pochi secondi il brulichio di un molo utilizzato per “caricare” le barche della droga. A fare da detonatore non è stato però un comunicato del Pentagono, né un video operativo diffuso dalle forze armate: è stata la voce del presidente Donald Trump, che il 29 dicembre 2025 ha rivendicato pubblicamente che gli Stati Uniti d’America hanno “colpito e distrutto” una struttura di attracco in Venezuela utilizzata dai traffici di stupefacenti. Nessuna coordinata geografica, nessun dettaglio sull’unità che avrebbe condotto l’azione — forze armate statunitensi o CIA (Central Intelligence Agency) — e nessuna verifica indipendente sul terreno. Il messaggio politico, però, è netto: la campagna di “neutralizzazione” dei presunti narcos, finora condotta prevalentemente in mare aperto con decine di attacchi e oltre cento vittime, potrebbe aver superato la linea di costa.

Davanti ai giornalisti in Florida, a margine di un evento pubblico, Trump ha parlato di un’“area di implementazione”, un molo dove — secondo la sua ricostruzione — le barche “si caricano” prima di prendere il largo. “Non esiste più”, ha detto. Non ha indicato il luogo preciso, né chiarito se l’azione sia stata compiuta da reparti militari o da operatori della CIA, cui nei mesi precedenti la Casa Bianca avrebbe concesso un quadro di autorizzazioni coperte per attività sul territorio venezuelano. Nessun commento è arrivato dalla Casa Bianca, dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti o dalla CIA. Dal Venezuela, al momento, non sono giunte conferme ufficiali. In questo vuoto informativo è entrata un’esplosione avvenuta la notte della Vigilia nei pressi dello stabilimento chimico Primazol, nello stato di Zulia: un episodio che è rapidamente confluito nel circuito delle supposizioni. L’azienda ha negato qualsiasi collegamento, e le autorità locali non hanno segnalato correlazioni con presunte operazioni statunitensi. I dati disponibili non consentono, allo stato attuale, di saldare i due eventi.

Se fosse confermato, un attacco a un’infrastruttura costiera segnerebbe un salto di qualità rispetto allo scenario fin qui noto. Da settembre 2025, su ordine del presidente Trump, gli USA hanno condotto una serie di attacchi letali contro imbarcazioni ritenute parte delle filiere della cocaina tra il Mar dei Caraibi e l’Oceano Pacifico orientale. Il conteggio più citato parla di almeno 29 operazioni e circa 105 morti, un bilancio in costante aggiornamento basato sulle dichiarazioni pubbliche del segretario alla Difesa Pete Hegseth e sulle ricostruzioni di testate internazionali. Per Washington, si tratta di “narcoterroristi” legati a reti come il Tren de Aragua; per Caracas, al contrario, di un pretesto per una campagna di pressione che sconfina nella coercizione militare e in una strategia di destabilizzazione politica.

La sequenza degli attacchi in mare è iniziata ai primi di settembre 2025, con un’azione contro una “go-fast” partita dalla costa venezuelana che ha causato la morte di 11 persone. Il giorno successivo, il governo venezuelano ha definito l’episodio un’invenzione e un montaggio, mentre familiari di alcune vittime, intervistati dai media locali, hanno ammesso il trasporto di droga ma negato legami strutturati con il Tren de Aragua. Nel frattempo, la Casa Bianca ha notificato al Congresso degli Stati Uniti che il paese si considera impegnato in un “conflitto armato non internazionale” contro “organizzazioni designate terroristiche”.

Tra ottobre e novembre, la campagna si è estesa all’est Pacifico, con una dozzina di attacchi che hanno fatto crescere progressivamente il numero delle vittime. I dati pubblicati in momenti diversi parlano di 51, poi 66 morti in 16 strike, fino a 57 in 13 azioni secondo conteggi parziali. Le cifre definitive restano fluide, ma tutte le ricostruzioni concordano su tre elementi: aumento della letalità, uso sistematico di droni armati e munizionamento guidato, ampliamento geografico delle aree d’ingaggio. A dicembre, nuovi colpi nell’est Pacifico hanno portato il totale oltre quota cento morti in 28 o 29 operazioni, secondo il monitoraggio di media europei e statunitensi. In parallelo, Washington ha disposto il sequestro di petroliere venezuelane accusate di violare il regime di sanzioni, provocando una risposta legislativa di Caracas contro quella che definisce “pirateria” e “blocco” in alto mare.

Il dispositivo operativo statunitense ha incluso l’impiego di unità navali aggiuntive, droni MQ-9 Reaper e, secondo alcune ricostruzioni, anche bombardieri B-52 in pattugliamento a lungo raggio. Una postura che diversi osservatori interpretano come un blocco navale di fatto, con implicazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo del diritto internazionale. Altre fonti hanno tracciato l’espansione delle aree d’ingaggio dalla costa venezuelana ai corridoi marittimi diretti verso Colombia, Ecuador e Perù.

Sul piano legale, l’amministrazione statunitense sostiene che le operazioni rientrino nella cornice di un “conflitto armato non internazionale” contro gruppi designati come terroristici e accusati di finanziare attività violente attraverso il traffico di droga. La Casa Bianca e l’Ufficio del Consiglio Legale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Unitiavrebbero avallato questa interpretazione, affermando che, una volta applicato il diritto dei conflitti armati, il personale che agisce nel rispetto delle regole d’ingaggio non sarebbe penalmente esposto. Il Pentagono ha respinto le notizie di dissenso interno tra i giuristi militari, mentre il Congresso ha annunciato verifiche nelle commissioni competenti.

Le organizzazioni per i diritti umani contestano però l’impianto alla radice. Human Rights Watch e Amnesty International, insieme a diversi relatori delle Nazioni Unite, sostengono che non esista un conflitto armato, ma un’operazione di contrasto al crimine transnazionale che dovrebbe sottostare agli standard di polizia e alla tutela del diritto alla vita. In assenza di una minaccia imminente e senza il tentativo di misure meno letali come intercettazione, fermo e arresto, l’uso della forza letale configurerebbe, secondo queste analisi, esecuzioni extragiudiziali. Alcuni esperti ONU hanno inoltre definito il presunto blocco navale una violazione della Carta delle Nazioni Unite.

Nel diritto internazionale del mare resta centrale la distinzione tra azioni condotte in acque internazionali e interventi all’interno della giurisdizione di uno Stato costiero. Anche gli attacchi dichiarati “in alto mare” sollevano interrogativi sulla proporzionalità; un’azione su infrastrutture a terra aumenterebbe ulteriormente il rischio politico e legale, incidendo direttamente sulla sovranità territoriale del Venezuela. La giustificazione in termini di autodifesa, spiegano diversi giuristi, richiede l’esistenza di un’aggressione armata in atto o imminente, una categoria difficilmente applicabile a un fenomeno criminale come il narcotraffico.

Il governo di Nicolás Maduro respinge integralmente la narrativa statunitense. Nega legami strutturali tra apparati statali e cartelli, definisce fabbricate le prove video diffuse da Washington e denuncia una strategia mirata a strangolare l’economia venezuelana, a partire dal settore petrolifero. A fine dicembre, l’Assemblea Nazionale venezuelana ha approvato una legge che prevede pene fino a 20 anni per chi sostenga azioni di “pirateria” e “blocco” contro il commercio marittimo del paese, in risposta ai sequestri di petroliere e alla crescente presenza navale statunitense.

Quanto alla presunta azione “a terra”, Caracas non ha riconosciuto nulla. Le ipotesi che collegano l’episodio allo stabilimento Primazol nello Zulia restano prive di riscontri: l’azienda nega legami con attacchi esterni e nessuna autorità ha attribuito l’esplosione a un intervento straniero. In mancanza di elementi forensi pubblici — immagini geolocalizzate, rilievi sui danni, frammenti di ordigni, testimonianze indipendenti — la cautela resta obbligatoria.

La Casa Bianca rivendica un forte effetto deterrente, parlando di un crollo dei flussi marittimi fino all’85 per cento. Ma la capacità adattiva delle organizzazioni criminali rende concreto il rischio di uno spostamento delle rotte, come dimostrano gli ultimi attacchi nell’est Pacifico e la flessibilità dei percorsi verso America Centrale e Messico. Resta opaca anche la trasparenza dei criteri di selezione dei bersagli, spesso giustificati con riferimenti a “intelligence certa” non verificabile a posteriori.

Il costo umano della campagna, oltre cento morti in meno di quattro mesi, solleva interrogativi irrisolti: non è chiaro quanti fossero figure apicali dei cartelli e quanti semplici addetti alla logistica, spesso reclutati tra pescatori e popolazioni costiere impoverite. In diversi casi, i sopravvissuti sono stati rimpatriati in paesi terzi o consegnati alle autorità locali, decisioni che hanno sollevato dubbi sulla catena di custodia, sull’accesso alla difesa legale e sulla possibilità di indagini indipendenti.

Gli attacchi e i sequestri hanno inoltre irritato governi della regione, aprendo un dibattito su fino a che punto gli Stati Uniti possano esercitare poteri di interdizione oltre i propri confini e in base a quale mandato. Per alcuni esperti delle Nazioni Unite, la soglia del blocco navale sarebbe già stata superata, configurando un uso della forza vietato dall’articolo 2, paragrafo 4, della Carta ONU. Un’estensione sistematica delle operazioni a terra rischierebbe di trasformare il confronto in una crisi internazionale aperta.

A oggi, del presunto colpo al molo esistono pochi punti fermi: la dichiarazione presidenziale del 29 dicembre 2025, l’assenza di conferme ufficiali da parte di Pentagono, CIA e Casa Bianca, il silenzio o le smentite indirette di Caracas, e il contesto di una campagna già costata circa 105 morti in mare. Mancano coordinate, prove indipendenti, una chiara definizione del bersaglio e una base giuridica condivisa per un’azione a terra in territorio sovrano senza mandato internazionale.

L’idea di colpire non solo le barche ma anche le infrastrutture logistiche cambia la logica dell’operazione, ma non elimina la resilienza delle reti criminali, che possono spostare rapidamente i punti di carico aumentando i costi senza interrompere i flussi. Un’azione a terra, anche limitata, aumenta il rischio di incidenti, vittime civili e danni collaterali, con possibili ripercussioni diplomatiche e militari.

In questo quadro, la cosiddetta “guerra al molo” evocata da Trump resta, per ora, soprattutto un’affermazione politica inserita in una strategia reale e sanguinosa contro il narcotraffico marittimo. Se sia davvero iniziata una nuova fase di attacchi sistematici sul territorio venezuelano dipenderà da prove verificabili e da indagini indipendenti. La questione centrale non è se la lotta alla droga richieda decisioni difficili, ma se e come l’uso della forza letale possa essere legale, efficace e sostenibile nel tempo. Senza risposte fondate, ogni nuova esplosione rischia di minare i principi dello Stato di diritto che si dichiarano di voler difendere.

Fonti: Dichiarazioni pubbliche di Donald Trump, Pentagono, Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, Casa Bianca, CIA (Central Intelligence Agency), Human Rights Watch, Amnesty International, Nazioni Unite, media internazionali europei e statunitensi, autorità venezuelane, Assemblea Nazionale venezuelana.

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