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La favola del bambino prodigio è una trappola, i veri talenti emergono solo con il tempo

Uno studio smonta il mito della genialità precoce e dell’iper specializzazione infantile

La favola del bambino prodigio

La favola del bambino prodigio è una trappola, i veri talenti emergono solo con il tempo

L’immagine del bambino prodigio, precoce, disciplinato, avviato fin dai primi anni verso un unico obiettivo, continua ad affascinare genitori, allenatori e insegnanti. È un’idea rassicurante, quasi consolatoria: se il talento emerge subito, allora può essere coltivato, guidato, indirizzato senza esitazioni. Eppure, dietro questo racconto lineare e seducente, la realtà appare molto più complessa. E spesso, sorprendentemente, va in direzione opposta.

Gli adulti più talentuosi, quelli che raggiungono l’eccellenza riconosciuta nello sport, nella scienza, nella musica o in altri campi di alto livello, raramente sono stati bambini prodigio. Non solo: la specializzazione precoce, fatta di allenamenti intensivi e dedizione esclusiva a una sola disciplina, si rivela spesso controproducente. A dirlo non è una suggestione pedagogica, ma un’analisi ampia e strutturata che mette in discussione uno dei dogmi più radicati dell’educazione al talento.

La ricerca, pubblicata su una delle più autorevoli riviste scientifiche internazionali, ha cercato di rispondere a una domanda cruciale: come si costruisce davvero un campione? La risposta è meno intuitiva di quanto si creda. Non attraverso la fretta. Non attraverso l’ostinazione. E soprattutto non imponendo ai bambini un percorso rigido e totalizzante quando il loro sviluppo è ancora in piena evoluzione.

Il pregiudizio dei talenti in erba è duro a morire. Siamo abituati a pensare che chi vince un Nobel, sale su un podio olimpico o rivoluziona una disciplina sia stato, fin da piccolo, un caso eccezionale. Un bambino diverso dagli altri, riconoscibile a colpo d’occhio, capace di prestazioni fuori scala già in tenera età. In realtà, spiegano i ricercatori, questo schema è vero solo in minima parte. E proprio questa convinzione rischia di generare due errori opposti ma ugualmente dannosi.

Da un lato si rischia di non vedere i futuri talenti, perché si cercano troppo presto, con criteri rigidi e poco sensibili alle traiettorie di sviluppo lente e irregolari. Dall’altro si finisce per bruciare potenziali campioni, sottoponendoli da bambini a carichi di lavoro, pressione psicologica e aspettative sproporzionate, che possono compromettere motivazione, benessere e persino la salute fisica.

A fare chiarezza sono i numeri. Un gruppo di ricercatori guidato da Arne Güllich, professore di Scienze dello Sport in Germania, e da Brooke N. Macnamara, psicologa negli Stati Uniti, ha analizzato i percorsi formativi e professionali di quasi 35.000 persone che hanno raggiunto i massimi riconoscimenti nei rispettivi ambiti. Campioni olimpici, scienziati insigniti del Nobel, grandi maestri di scacchi, compositori affermati. Profili diversi, accomunati da un talento indiscusso in età adulta.

Il risultato è netto. Solo circa il 10% di chi è diventato un’eccellenza riconosciuta era stato un bambino prodigio nello stesso settore. Allo stesso modo, solo una minoranza dei bambini iperperformanti ha poi mantenuto quella posizione di vertice una volta cresciuta. In altre parole, i bambini più brillanti e gli adulti più premiati sono spesso persone diverse.

Questo scarto non è un’anomalia statistica, ma un’indicazione strutturale. Il talento, spiegano gli studiosi, non segue una linea retta. È il risultato di un processo lungo, stratificato, fatto di tentativi, deviazioni, ripensamenti. E soprattutto di tempo.

Chi arriva all’eccellenza, nella maggior parte dei casi, non si distingue per una precocità clamorosa. Piuttosto sviluppa le proprie capacità in modo graduale, attraversando fasi di esplorazione che, a posteriori, si rivelano decisive. Molti campioni dello sport hanno praticato più discipline prima di specializzarsi. Molti scienziati hanno cambiato più volte area di interesse. Molti musicisti hanno sperimentato generi diversi, strumenti differenti, persino percorsi di studio lontani dalla musica.

Quelle che dall’esterno possono sembrare digressioni o perdite di tempo, in realtà contribuiscono a costruire un bagaglio ricco e flessibile. Un patrimonio di competenze trasversali che, nel momento della scelta definitiva, diventa un vantaggio competitivo.

La varietà di esperienze non è quindi un ostacolo al talento, ma uno dei suoi principali alleati. Gli studiosi individuano almeno tre ragioni per cui questo approccio risulta più efficace rispetto all’iper specializzazione precoce. La prima è intuitiva: sperimentare ambiti diversi aumenta la probabilità di trovare quello in cui una persona può esprimersi davvero al meglio. Non tutti scoprono subito la propria vocazione, e forzare una scelta troppo precoce può significare imboccare la strada sbagliata.

La seconda ragione riguarda la capacità di apprendere. Esporsi a discipline differenti rafforza le abilità cognitive generali, rende più elastico il modo di pensare e facilita l’acquisizione di nuove competenze. Quando arriva il momento di concentrarsi su un campo specifico, chi ha esplorato di più impara più velocemente e con maggiore profondità.

La terza motivazione è forse la più delicata. Distribuire gli sforzi riduce il rischio di burnout, di perdita di motivazione, di logoramento psicologico e fisico. Nel caso dello sport, limita anche l’esposizione a infortuni legati a un uso eccessivo e ripetitivo del corpo in età di sviluppo. Nel lungo periodo, protegge il piacere di fare, che resta uno dei motori più potenti dell’eccellenza.

Tutto questo ha implicazioni dirette per chi oggi si trova ad accompagnare bambini e ragazzi che mostrano capacità fuori dalla media. Supportare un talento in erba non significa incanalarlo subito in un percorso rigido, ma offrirgli spazio, tempo e opportunità di esplorazione. Significa accettare che la crescita non è uniforme, che le fasi di apparente stallo fanno parte del processo, che l’interesse può cambiare senza che questo rappresenti un fallimento.

E significa anche fare un passo indietro, rinunciando all’ansia del risultato immediato. Perché, come suggeriscono i dati, l’eccellenza non nasce quasi mai dall’urgenza di primeggiare subito, ma dalla possibilità di costruire, con pazienza, una relazione sana e duratura con ciò che si fa.

In un’epoca ossessionata dalla performance e dalla competizione precoce, questo messaggio suona controcorrente. Ma è proprio nella sua semplicità che risiede la forza. Il talento adulto non è quasi mai la prosecuzione lineare di una genialità infantile. È, più spesso, il frutto di un percorso accidentato, ricco di esperienze, in cui la libertà di sbagliare e di cambiare direzione diventa una risorsa, non un limite.

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