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Strage di Brandizzo: il sistema che poteva fermare il treno era spento

Documenti riservati, decisioni sospese e una catena di scelte: perché il sistema TP 8000 non era attivo nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2023 e cosa significa oggi per le responsabilità

Tragedia di Brandizzo

Tragedia di Brandizzo

Alle 23.47 del 30 agosto 2023, sulla linea Torino–Milano, un treno di servizio lanciato a circa 160 chilometri orari travolge un gruppo di operai al lavoro sui binari, nei pressi della stazione di Brandizzo. Cinque uomini muoiono sul colpo: Kevin Laganà (22 anni), Michael Zanera (34), Giuseppe Sorvillo (43), Giuseppe Aversa (49) e Saverio Giuseppe Lombardo (52). Erano tutti dipendenti della Sigifer, impegnati nella sostituzione dei binari. È uno dei più gravi incidenti sul lavoro degli ultimi anni in Italia.

La scena è fissata nelle immagini delle telecamere e nelle registrazioni audio acquisite dagli investigatori: pochi secondi, telefonate concitate, il rumore del convoglio che si avvicina. In quell’intervallo minimo, secondo gli atti dell’inchiesta, un sistema di sicurezza avrebbe potuto imporre lo stop al treno. Non lo fece perché non era attivo. Si chiama TP 8000, ed è questo il nodo che oggi pesa sull’indagine della Procura di Ivrea.

Gli inquirenti, coordinati dalla procuratrice Gabriella Viglione, hanno ricostruito nel dettaglio le procedure seguite quella notte: l’apertura del cantiere, le autorizzazioni, la catena di comunicazioni tra caposquadra, caposcorta e dirigenza della circolazione. Incrociando i dati tecnici emerge un fatto chiave: il TP 8000, sistema sperimentale progettato per “dialogare” con i treni e bloccarli automaticamente in presenza di persone sui binari, era stato spento da tempo. La sperimentazione era stata interrotta “un paio d’anni prima” dell’incidente.

Le vittime della strage di Brandizzo

Secondo la descrizione contenuta negli atti e riportata nei servizi del Tg3, il TP 8000 funzionava come un vero e proprio guardiano digitale del cantiere: in caso di presenza umana in linea, il sistema avrebbe potuto attivare la frenatura d’emergenza del convoglio. La sua assenza, quella notte, è diventata uno degli elementi centrali dell’inchiesta, perché apre una domanda cruciale sulle scelte organizzative e tecniche adottate da Rete Ferroviaria Italiana (RFI).

Il 24 luglio 2025 la Procura ha chiuso le indagini preliminari. Gli indagati sono 24: 21 persone fisiche e tre societàRFI, Sigifer e CLF. L’ipotesi iniziale di omicidio volontario con dolo eventuale è stata esclusa; restano, a vario titolo, i reati di omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario colposo. Tra gli indagati compaiono anche Vera Fiorani e Gianpiero Strisciuglio, ex amministratori delegati di RFI, chiamati in causa come datori di lavoro.

Un dettaglio tecnico, emerso dagli accertamenti, restituisce la misura del rischio corso quella notte: un solo bullone non ancora svitato avrebbe impedito il deragliamento del treno dopo l’impatto. Se il convoglio fosse uscito dai binari, la tragedia avrebbe potuto assumere dimensioni ancora più gravi, vista la presenza di edifici in prossimità della linea. È su questo punto che la Procura fonda anche l’accusa di disastro ferroviario colposo, reato di pericolo.

RFI ha sempre sostenuto che i protocolli di sicurezza esistessero e che non sarebbero stati rispettati “da chi era sui binari”. L’azienda ha inoltre avviato interlocuzioni per il risarcimento delle famiglie delle vittime. Ma l’inchiesta mette in discussione non solo i comportamenti sul campo, bensì l’intera filiera decisionale, inclusa la scelta di interrompere la sperimentazione di un sistema progettato proprio per prevenire quel tipo di rischio.

Nelle prime fasi dell’indagine erano finiti sotto i riflettori anche i due sopravvissuti presenti sul posto, il caposcorta RFI Antonio Massa e il capocantiere Sigifer Andrea Girardin Gibin. Le loro chiamate, entrate negli atti, raccontano la concitazione di quei minuti. Ma col passare del tempo il perimetro si è allargato: dalle responsabilità operative si è risaliti ai livelli apicali e alle scelte strutturali.

Il caso Brandizzo si inserisce in un dibattito più ampio sulla sicurezza nei cantieri ferroviari. L’Italia sta investendo miliardi nell’estensione del sistema ERTMS, anche con fondi PNRR, per migliorare il controllo della circolazione. Ma i cantieri in linea restano un punto critico, dove errore umano, pressione sui tempi e ambiguità nelle comunicazioni possono diventare letali se non compensati da strumenti di protezione dedicati. È in questo spazio che il TP 8000 avrebbe dovuto operare.

La commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro, presieduta da Chiara Gribaudo, lo ha detto chiaramente: «Chi sostiene che a Brandizzo sia stato solo un errore umano, sbaglia». Il riferimento è alla necessità di rivedere la catena degli appalti, rafforzare la formazione e introdurre sistemi che rendano impossibile – o almeno rarissimo – l’avvio di lavori con un treno in arrivo.

Cinque morti, un treno a 160 all’ora, un sistema spento, 24 indagati. Non sono numeri astratti, ma coordinate di responsabilità. Sarà il processo a stabilire se e quanto la scelta di interrompere quella sperimentazione abbia inciso sulla tragedia. Ma una lezione è già evidente: nei cantieri ferroviari la sicurezza non può basarsi su un solo livello di controllo. La ridondanza non è un optional, è una necessità vitale.

In attesa dell’udienza preliminare, una domanda resta sospesa sopra quel binario di Brandizzo: se uno strumento pensato per fermare i treni in presenza di operai era stato progettato, testato e poi spento, perché non era attivo proprio quella notte? La risposta non riguarda solo la giustizia, ma il futuro stesso della sicurezza sul lavoro ferroviario.

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