Cerca

Pendolaria 2025, il Paese fermo in stazione: miliardi ai ponti, briciole ai pendolari

Il nuovo rapporto di Legambiente fotografa un’Italia che investe nelle grandi opere simboliche e abbandona il trasporto pubblico: linee chiuse da anni, treni vecchi, corse soppresse e una “cura del ferro” che resta solo uno slogan

Pendolaria 2025, il Paese fermo in stazione: miliardi ai ponti, briciole ai pendolari

Pendolaria 2025, il Paese fermo in stazione: miliardi ai ponti, briciole ai pendolari

Ogni mattina, in Italia, milioni di pendolari salgono su un treno senza sapere se arriveranno in orario, se arriveranno affatto, o se riusciranno semplicemente a salire. È una roulette quotidiana fatta di corse soppresse, ritardi cronici, convogli vecchi, stazioni deserte, annunci incomprensibili e una certezza: il trasporto pubblico ferroviario continua a essere l’anello debole di un Paese che ama definirsi moderno, europeo, sostenibile. Ma che poi, nei fatti, abbandona chi viaggia in treno.

È da qui che parte Pendolaria 2025, la ventesima edizione del rapporto di Legambiente, un dossier che ogni anno torna puntualmente a raccontare quello che governi, ministeri e regioni fingono di non vedere. Non un esercizio accademico, ma una fotografia impietosa di un sistema intrappolato tra rinvii, promesse non mantenute e scelte politiche sbagliate, costruita insieme ai comitati pendolari, cioè a chi quei disservizi li vive sulla propria pelle.

Il quadro è desolante. E soprattutto è sempre lo stesso.

Le cosiddette linee peggiori d’Italia non sono un’eccezione, ma il sintomo di una malattia strutturale. In Campania, la ex Circumvesuviana mantiene saldamente il primato negativo: in dieci anni ha perso 13 milioni di passeggeri, come se un’intera città fosse scomparsa dai binari. Treni senza climatizzazione, stazioni spesso senza personale, un orario ancora definito “provvisorio”, come se l’emergenza fosse temporanea e non cronica. Sempre in Campania, sulla Salerno–Avellino–Benevento, la riapertura della stazione di Avellino slitta tranquillamente a giugno 2027, con una leggerezza che racconta molto di quanto il tempo dei pendolari valga poco.

Nel Lazio, la Roma Nord–Viterbo colleziona un record che nessuno rivendica: 8.038 corse soppresse nei primi dieci mesi del 2025, il dato peggiore degli ultimi tre anni. La Roma–Lido, invece, resta ostaggio di guasti e disservizi continui, nonostante annunci e promesse di rilancio. Al Nord, sulla Milano–Mortara–Alessandria, ogni giorno circa 19 mila persone fanno i conti con ritardi dovuti a un raddoppio della linea che non arriva mai. E poi il Piemonte, con un sistema ferroviario regionale e metropolitano che continua ad arrancare; la Vicenza–Schio nel Nord-Est; le Ferrovie del Sud Est, simbolo di un Mezzogiorno dimenticato. Tra le new entry del 2025 spicca la Sassari–Alghero, con quattro coppie di treni soppresse e un servizio quotidiano che resta largamente insufficiente. In Sicilia, infine, ci sono ferite che non si rimarginano mai: la Catania–Caltagirone–Gela, in parte interrotta dal 2011, e la Palermo–Trapani via Milo, chiusa dal 2013, come se dieci o tredici anni di sospensione fossero una normale parentesi amministrativa.

E mentre le linee chiudono, i servizi si riducono e i pendolari si arrangiano, la politica continua a fare altre scelte. Scelte che Legambiente definisce senza mezzi termini sbagliate, perché ancora ancorate a una visione vecchia, che privilegia il mezzo privato e le grandi opere simboliche, a scapito della mobilità quotidiana di milioni di persone. Il caso più eclatante è, ovviamente, il Ponte sullo Stretto di Messina. Un’opera che da sola, insieme a nuove autostrade e strade in progetto, porta a una spesa pubblica prevista di oltre 30 miliardi di euro, mentre intere linee ferroviarie restano chiuse da più di un decennio.

Nel frattempo, il Paese è disseminato di infrastrutture costose, impattanti e vuote. La Bre.Be.Mi. in Lombardia, a dieci anni dall’inaugurazione, è ancora largamente deserta: tariffe elevate, tracciato doppione della A4, utilità pubblica discutibile. La Pedemontana Veneta pesa come un macigno sui conti pubblici: la Regione dovrà pagare il canone al concessionario per 39 anni, fino a un totale di 12 miliardi di euro. Opere che hanno devastato territori, consumato suolo, compromesso paesaggi, senza risolvere i problemi di mobilità.

Intanto, la vita dei pendolari resta durissima. I treni regionali non bastano. Le città crescono, ma i binari no. Negli ultimi dieci anni si sono realizzati in media 2,85 chilometri all’anno di nuove metropolitane e appena 1,28 chilometri all’anno di tranvie. Numeri ridicoli se rapportati ai bisogni reali. La legge di Bilancio 2025, poi, certifica una scelta politica chiara: nessun fondo per il trasporto rapido di massa, nessuna attenzione alla ciclabilità e alla mobilità dolce. Anzi, vengono definanziate opere fondamentali come la metro C di Roma, il prolungamento della M4 a Milano e il collegamento Afragola–Napoli. Tutto ciò mentre metropolitane, tranvie e ferrovie urbane sono esattamente ciò che migliora la qualità della vita, riduce traffico e inquinamento, abbassa i costi sanitari e garantisce un accesso più equo alla mobilità.

PENDOLAIRA

Il nodo, però, è anche – e soprattutto – economico. I finanziamenti sono insufficienti, ben al di sotto delle necessità. L’incremento di 120 milioni di euro previsto nella legge di Bilancio 2025 per il Fondo Nazionale Trasporti appare poco più che simbolico, se si considera che i finanziamenti complessivi per il trasporto su ferro e gomma sono passati da 6,2 miliardi nel 2009 a 5,2 miliardi nel 2024. In termini reali, tenendo conto dell’inflazione, significa –36% in quindici anni. Nel frattempo, il Ponte sullo Stretto continua a drenare risorse: 1,6 miliardi sottratti ai Fondi per lo sviluppo e la coesione destinati a Calabria e Sicilia, un aumento del contributo FSC fino a 7,7 miliardi, e un dato che fa impressione: oltre l’87% degli stanziamenti infrastrutturali fino al 2038 finirà su un’unica opera, lasciando irrisolti problemi quotidiani che durano da decenni.

Come se non bastasse, sul trasporto pubblico pesa sempre di più la crisi climatica. Tra il 2010 e il 2024 sono stati registrati 203 eventi meteo estremi che hanno causato interruzioni e ritardi a treni, metro e tram. Roma, Napoli e Milano guidano questa triste classifica. Secondo il Ministero delle Infrastrutture, senza adeguate misure di adattamento i danni alla mobilità potrebbero arrivare entro il 2050 fino a 5 miliardi di euro l’anno, incidendo sul PIL nazionale in modo significativo.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ritardi cronici, stazioni chiuse, treni rari e vecchi, soprattutto al Sud, dove l’età media dei convogli è ancora di 17,5 anni, contro i 9 anni del Nord. Reti non elettrificate, linee dismesse, collegamenti sospesi da oltre tredici anni. Un Mezzogiorno che resta il grande dimenticato, nonostante proclami e piani strategici.

Pendolaria 2025 non è solo un elenco di disservizi. È una denuncia politica e una battaglia di civiltà. Perché un Paese che investe miliardi in opere simboliche e lascia i pendolari a piedi non è un Paese moderno. È un Paese che ha scelto di guardare altrove. Insomma, meno ponti da cartolina e più binari veri, perché la modernità non passa dagli annunci, ma da un treno che arriva in orario.

SCARICA IL RAPPORTO clicca QUI

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori