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19 Dicembre 2025 - 18:58
Ursula Von Der Leyen
Il rumore delle stampanti dei clearing nelle sale di Euroclear, a Bruxelles, non si ferma mai. Fogli, numeri, flussi che scorrono mentre la geopolitica prova a trasformarsi in diritto, e il diritto in denaro spendibile. Giovedì sera, a pochi chilometri di distanza, i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea uscivano da un vertice teso con in tasca una soluzione di ripiego ma decisiva: un prestito da 90 miliardi di euro all’Ucraina per il biennio 2026-2027, a tasso zero. Non la grande scommessa sugli asset russi congelati, non il colpo di mano giuridico che qualcuno auspicava, ma un compromesso che compra tempo. E che racconta molto di ciò che oggi è – e non è – l’Europa.
Su un punto dirimente, infatti, l’Unione non ha trovato l’unità politica né il coraggio giuridico: usare direttamente gli attivi russi congelati. A fermare la “grande scommessa” è stato soprattutto il primo ministro belga Bart De Wever, custode suo malgrado di circa 185 miliardi dei 210 miliardi di euro di ricchezza russa immobilizzata nel blocco, concentrata proprio presso Euroclear. Un peso enorme, che per Bruxelles (la capitale belga, prima ancora che quella europea) significa rischio sistemico: un passo falso potrebbe incrinare la fiducia nella piazza finanziaria europea e, per estensione, nella stabilità dell’euro.
Mentre la presidente della Commissione Ursula von der Leyen archiviava in fretta un volo per il Brasile, un altro dossier si sgonfiava sul tavolo: la firma del trattato UE–Mercosur, annunciata per il 20 dicembre, non si farà. “Serve ancora tempo”, chiedono Francia e Italia. E il vertice, così, si chiude lasciando dietro di sé una narrazione divisa: successo pragmatico o occasione persa?
Per il cancelliere tedesco Friedrich Merz, che aveva puntato tutto sull’uso degli attivi russi per finanziare Kyiv e sulla chiusura del capitolo Mercosur, il risultato ha il sapore amaro del compromesso. A caldo, però, da Berlino e Parigi arriva una lettura meno cupa: pragmatismo e rapidità per evitare un vuoto finanziario che avrebbe colpito l’Ucraina già dal primo trimestre del 2026. In mezzo, come sempre, la politica del possibile. Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca – tradizionalmente scettiche – evitano il veto sul prestito, ottenendo in cambio la garanzia di non essere chiamate al rimborso. Una forma di opt-out finanziario che fotografa bene le linee di frattura interne all’Unione.
Kyiv, con Volodymyr Zelensky, incassa. Mosca osserva e prepara contromosse, soprattutto sul terreno legale.

Volodymyr Zelensky
Il cuore dell’intesa è semplice solo in apparenza: 90 miliardi di euro erogati tra il 2026 e il 2027, interessi azzerati, rimborso differito. L’architettura finanziaria poggia su emissioni garantite dal bilancio dell’Unione, in sostanza nuovo debito comune con rating UE, una formula già sperimentata durante la pandemia e poi con lo Ukraine Facility. È il “plan B”: meno audace, più sicuro, giuridicamente collaudato.
Il piano A, quello di una reparations loan ancorata ai proventi o alle garanzie degli attivi russi immobilizzati, si è invece incagliato su tre scogli: il rischio di ritorsioni e cause legali (con Euroclear nel mirino), i dubbi su immunità sovrana e diritto internazionale, e soprattutto la necessità di fornire al Belgio garanzie “a prova di bomba” in caso di condanne o confische da parte russa. In una delle bozze circolate al vertice si parlava persino di garanzie illimitate a carico degli altri Stati membri per coprire eventuali danni. Una prospettiva che ha gelato più di una capitale. Così l’idea viene accantonata, almeno per ora, e resta sullo sfondo come possibile meccanismo di futura restituzione del prestito, quando – e se – la Russia pagherà riparazioni all’Ucraina.
Il fattore Belgio è decisivo. Bart De Wever lo ha messo nero su bianco in una lettera dura alla Commissione, parlando di rischi “non accademici ma reali”. In Parlamento ha persino ventilato azioni legali nel caso in cui l’UE decidesse di scavalcare Bruxelles ricorrendo a un voto a maggioranza qualificata, magari facendo leva sull’articolo 122 dei Trattati, quello delle emergenze. L’Unione ha provato a rassicurare con clausole di compensazione: se la Russia sequestrasse beni europei in ritorsione, gli Stati colpiti potrebbero attingere agli stessi asset russi congelati. Non è bastato.
Sul fronte giudiziario, Mosca ha già mosso le sue pedine. La Banca di Russia ha avviato una causa contro Euroclear presso l’Arbitration Court di Mosca per circa 18,1 trilioni di rubli, oltre 200 miliardi di dollari. L’udienza preliminare è fissata per il 16 gennaio 2026. A Bruxelles l’azione viene definita speculativa e infondata, destinata a restare senza effetti esecutivi nell’UE. Molti giuristi ricordano che, per agire davvero in altre giurisdizioni, la Russia dovrebbe rinunciare alle stesse immunità sovrane che oggi invoca. Ma il messaggio politico è chiaro: il Cremlino intende contestare in ogni sede l’uso, diretto o indiretto, dei suoi asset immobilizzati.
Per l’Ucraina il “plan B” significa due certezze e un’incognita. Le certezze sono la liquidità garantita per due anni e il costo del denaro pari a zero. L’incognita riguarda il dopo: cosa accadrà oltre il 2027, e come verranno ripagati i prestiti se il capitolo delle riparazioni restasse bloccato a lungo. Stime circolate al vertice parlano di un fabbisogno ucraino di circa 137 miliardi di euro nel biennio 2026-2027. I 90 miliardi europei coprono solo una parte della somma, che dovrà essere integrata con aiuti bilaterali, flussi delle istituzioni finanziarie internazionali e – variabile sempre più imprevedibile – il sostegno degli Stati Uniti nella nuova fase dei rapporti transatlantici. Per ora, però, il segnale politico è chiaro: evitare una crisi di cassa che avrebbe messo a rischio stipendi pubblici, servizi essenziali e la stessa resilienza bellica.
Sul fronte interno europeo, il consenso è largo ma non compatto. L’opt-out concesso a Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca riflette una fatica di guerra che diventa sempre più esplicita nel dibattito politico. Dall’altra parte, Germania e Francia incorniciano l’esito come prova di unità strategica e di “sovranità europea” nella gestione del debito comune, pur riconoscendo che l’opzione degli asset russi resta aperta “in un altro orizzonte temporale”.
Gli asset russi restano dunque congelati, e probabilmente lo resteranno a lungo. La cornice normativa europea li immobilizza a tempo indeterminato fino a quando non cesseranno i rischi per l’economia dell’Unione e non arriveranno riparazioni a Kyiv “senza conseguenze economico-finanziarie” per l’UE. I proventi maturati – i famosi windfall profits– continueranno a essere incanalati verso l’Ucraina, ma è tutt’altra cosa rispetto all’utilizzo del capitale come garanzia o fonte diretta di prestiti.
Parallelamente, il vertice ha riaperto il capitolo Mercosur, rinviandolo. La firma del trattato con Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay slitta, con ogni probabilità, a gennaio 2026. Emmanuel Macron insiste su clausole vincolanti su standard ambientali e sanitari; Giorgia Meloni offre un sì politico ma chiede tutele per gli agricoltori e qualche settimana in più. Nel frattempo, i trattori sfilano nel quartiere europeo di Bruxelles, mentre Germania e Spagna spingono per chiudere un accordo che creerebbe una delle più grandi aree di libero scambio del pianeta, con oltre 700 milioni di consumatori. Anche qui, l’Europa mostra tutta la sua tensione interna: ambizione globale e prudenza domestica.
In fondo, la vicenda del prestito all’Ucraina e quella del Mercosur raccontano la stessa storia. Politica, finanza e consenso sociale suonano insieme, spesso in disaccordo. Sui 90 miliardi ha prevalso la logica della rapidità e del rischio calcolato. Sul Mercosur, la pressione interna ha consigliato di non forzare. Per Berlino resta comunque un successo: la sovranità europea, dicono, è stata dimostrata; l’obiettivo sugli asset russi non è abbandonato, solo rinviato.
L’Unione esce dal vertice con risorse certe per Kyiv e con un rinvio gestito sul fronte commerciale. È abbastanza? Per l’Ucraina significa evitare un crash di cassa. Per l’Europa significa riconoscere i propri limiti giuridici e politici senza chiudere del tutto la porta a soluzioni più radicali in futuro. Ma è anche un test sulla credibilità dell’UE in un mondo meno paziente. I partner osservano, i mercati ascoltano, gli elettori giudicano.
La prossima verifica è già scritta sul calendario: 16 gennaio 2026, a Mosca, e la finestra di gennaio per il Mercosur. Fino ad allora, l’Europa ha comprato tempo. I problemi, quelli, restano tutti sul tavolo. Insomma.
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